Suonava sempre un po’ sbagliata e incomprensibile alle orecchie superficiali di chi chiedeva ai soldati dell’armata rossa, giunti nei campi di concentramento nazisti, la risposta su cosa li avesse colpito di più.
Trovato davanti al cumulo di macerie fatto di corpi e di ex-dignità umana, spostato di nuovo la barriera della crudeltà ancora più in là, la risposta doveva essere qualcosa sulla crudeltà, sull’odio.
Eppure i soldati, così come tanti dei fortunati che presero parte al processo di Norimberga o in quello di Eichmann, insistevano a rispondere sempre con la stessa formula: la banalità del male, titolo anche di un fortunato e utile romanzo di Hannah Arendt.
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Non la morte dunque, né il sangue o le ossa che si potevano contare nei loro corpi straziati, tutte risposte che potevamo immaginare di sentire da loro. Invece no. La banalità del male era, se possibile, una risposta più inquietante ed inaspettata.
Quello che proprio non riuscivano a capire, queste orecchie superficiali o poco propense al dubbio, era questa frase che richiudeva tutti questi mali, e per di più, andava oltre. Devono aver pensato che una delle caratteristiche principali del male fosse proprio il suo non-essere-il-bene.
Dunque: il bene è organizzazione, efficienza, solarità, mentre il male è casuale ed effimero, colpisce e si ritira nell’oscurità. Può esistere in spruzzi e in minuti di follia che ogni popolo ha prodotto e ciclicamente produce, ma difficilmente può essere elevata a un sistema di governo.
Sono tanti gli scrittori che si sono cimentati, con indubbio successo sull’argomento, che hanno descritto o mostrato la banalità del male. Indubbiamente Levi, in certi momenti a modo suo, Stephen King.
Leonard Cohen, nel suo Flowers for Hitler (1964) pubblica “Tutto quello che dovete sapere di Adolph Eichmann” dove dice che aveva dieci dita, peso medio, capelli medi, intelligenza media e nessun segno distintivo. Che nessuno doveva aspettarsi saliva verde oppure follia, Eichmann non c’è l’aveva. La malvagità, a differenza della pazzia, non si manifesta.
Sì può dire, come si suol dire troppo spesso, che Ismail Kadare abbia scritto sempre lo stesso libro. È una frase che non ha molto senso, ma si può dire. Questo perché è più che frequente che il personaggio nei suoi libri sia vittima casuale o addirittura macellaio incosciente del sistema ( più evidente in libri quali come [amazon link=”8850222815″ /], [amazon link=”8830414336″ /], [amazon link=”8830422843″ /], [amazon link=”8830424048″ /], tutti editi in Italia da Longanesi. )
Tra i tanti aspetti che Kadare ha colto per continuare il lavoro lì dove Kafka aveva smesso, c’è anche questo sottile filo tra macellaio e vittima nei sistemi dittatoriali. Uno dei tanti messaggi che grida è proprio la descrizione del potere sotto la dittatura.
Nella sua terra – in Albania – ma anche in tutti i sistemi comunisti, era frequente che ogni dieci anni la Guida, come lo chiama Kadare, o il segretario del Partito se preferite, facesse un ricambio generazionale tra i vertici del governo, un ricambio di sangue, fatto appunto con il sangue.
Che nelle carceri del regime, a parte poeti e assassini comuni, ci fossero anche ex-ministri caduti in disgrazia era del tutto normale. Uno dei massimi intellettuali albanesi odierni si chiama Fatos Lubonja , è figlio dell’ex ministro della cultura condannato per un festival della musica giudicato troppo “permissivo e occidentale” dalla Guida, pur non essendo né l’uno, né l’altro. Suo figlio, ovviamente, non aveva avuto nessun ruolo in quel festival ma le colpe dei padri cadono sui figli, e anche il bene, così come il male, va estirpato fino alle radici.
E Kadare c’è lo dice, tutto questo, anche se al posto del ministro troviamo il Gran Visir ottomano. Una delle nozioni che difficilmente gli europei capiscono veramente, è che nel sistema comunista un impiegato gerarchicamente inferiore non è mai veramente tale se per esempio è un membro del Partito o riferisce al Partito.
La gerarchia è approssimativa perché nessuno è al di sopra di questo organo, se non la Guida. Kadare ha mostrato tutto questo, anche durante il regime. A modo suo, ovviamente. Scrivendo Faraone al posto di Guida. Scrivendo Gran Visir al posto di Primo Ministro.
Certi meccanismi dell’Impero sono identici, non fanno che ripetersi nel tempo. Proprio per questo non dev’essere stato difficile trasformare semplicemente il nome da Ilir o Agron in Mustafa o Ebu Qerim, per spostare la storia dall’impero comunista albanese in quello ottomano.
Se il sistema c’è, si tratta solo di mostrarlo al meglio, anche a costo di nasconderlo, mascherarlo per avere salva la pelle. Perché in Albania un Boris Pasternak o un Václav Havel era impensabile. Se c’è mai stato probabilmente è morto nelle carceri del regime.
L’Albania non era la vicina Jugoslavia che flirtava con l’occidente, la primavera di Praga era tutto il contrario dell’inverno di Tirana. Diamine, persino l’U.R.S.S ebbe la sua seconda chance quando lo stalinismo morì con Stalin. In Albania non ci fu niente di tutto ciò, in più di 40 anni ( 1943-1985 ) fu dirottata dalla stessa persona, un stalinista fanatico chiamato Enver Hoxha.
Un romanzo come “La figlia di Agamennone” (Longanesi 2007, pagine 112, prezzo 13€ ) per esempio, è stato scritto in secreto tra il 1984 e il 1986, e portato clandestinamente in Francia.
L’editore e Kadare erano d’accordo che il libro sarebbe stato pubblicato solo se a Kadare fosse successo qualcosa. Qualcosa di brutto. Eppure, lo stesso scrittore era stato persino deputato del Parlamento Socialista.
Che casino! Questo era il sistema, il passato, il comunismo, a tratti comune a tutti i popoli, a tratti diverso ed impersonale in ciascuna dittatura.
Quello che Kadare riesce a cogliere è proprio quella banalità del male, il male come modo di vivere. Nella realtà, come nei suoi libri, i personaggi negativi non sono necessariamente uomini del potere o membri del Partito, anzi, la forza del sistema è un infinito esercito di impiegati del male che, posizionato dietro una scrivania sa che l’unico modo per difendersi è attaccare prima di venire attaccati.
Denunciare, osservare, spiare, iscriversi al Partito, provocare. È questa, purtroppo, la forza della dittatura, la sua pietra miliare, esposta meglio in Albania per la durata del sistema. Denunciare prima di venire denunciare, far paura invece di averla. Senza parlare, senza chiedere spiegazione.
Percepire l’invisibile spada di Damocle che forse sta per abbattersi su di te e trovare un sostituto, inventarlo se non esiste. Il capo della fabbrica, della cooperativa, l’impiegato, l’insegnante, chiunque non sia tu.
Tutti possono spiare tutti, è per questa ragione che la gerarchia tra le classi sociali o anche nei rapporti di lavoro decade in un ” tutti contro tutti” ma sempre tacito, educato, formale. Ad un certo punto il Partito non ha neanche bisogno di fare operazioni di intelligence, gli basta aspettare e il sistema porterà i suoi frutti, a volta mettendo in pericolo anche membri del Partito stesso. Tutto quello che deve fare è oliare, se necessario, il meccanismo quando si presentano i primi intoppi.
E il gioco ricomincia. È il sistema perfetto, e Kadare lo ha descritto onestamente ; cogliendo il suo lato umano, quel terrore che lo ha nutrito della propria paura finché il tutto non è caduto non tanto per ragioni politiche, quanto per ragioni meramente economiche.
Il male dietro la scrivania. Il male nel gelataio che ascolta una frase di troppo e non sa se lo ha detto un nemico del Sistema oppure un servo del Sistema che lo sta provocando per vedere se lo denuncerà o meno. E nel dubbio lo denuncia. Il Sistema che fucila, e che puntualmente scrive nei suoi registri chi ha ucciso e dove si trova il corpo. Scaveremo decine di anni dopo per seppellirli. Nei registri non c’è la ragione della fucilazione, non può esserci.
Ci sono solo delle frasi che sembrano venire fuori dai romanzi di Kadare: nemico del popolo, influenza occidentale, per agitazione e propaganda politica. Frasi che non significano niente, perché è difficile persino capire quali comportamenti sono sbagliati e quali no. Non lo sano i membri del Partito, non lo sanno gli altri. Tutti insieme, ora vittime e ora carnefici, l’importante è dare al boia le sue vittime quotidiane.
Perché è sempre facile prendersela con i soli comunisti o nazisti, dimenticando chi li portò e chi gli mantenne al potere. Tracciare una linea tra buoni e cattivi fa sempre comodo allo scrittore, ma parlando di storie di questa portata e non di semplici western, questo approccio è semplicemente fasullo. Kadare non ci cade. Se lo leggete, è probabile che neanche voi ci cadrete più.
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