Ancora oggi la mia Odissea non è finita, nonostante le molteplici richieste mie e delle Istituzioni italiane al Governo albanese per la riesumazione delle spoglie dei detenuti morti nel carcere di BurrelVivo a Roma ma ho letto e tradotto l’articolo di Agron Tufa pubblicato sulla rivista “Start” e diffusa su internet alla fine di dicembre scorso. Sono riconoscente ad Agron per le forti parole scritte in difesa della verità storica che deve essere sempre letta nella sua giusta realtà, ne contraffatta ne dimenticata. Ringrazio anche tutto il Comitato dell’Istituto ISKK per essersi interessato alla vicenda della mia famiglia e per avermi accolto con tanta cordialità. In particolare vorrei ricordare Gezim Peshkepia che avendo saputo del mio libro, in italiano “Ritorno al Paese delle Aquile” è risalito alla nostra storia da bambini, quando ero rifugiato, con la mia famiglia, per breve tempo, a casa sua a Tirana nel 1948. Voglio ribadire che questo mio libro, che ha fatto tanto scalpore in Albania, è una storia vera testimoniata e certificata ed io l’ho scritto semplicemente come un diario.
In questa sede racconterò, brevemente, la storia per chi non avesse letto o potuto acquistare il libro che è stato recentemente tradotto in albanese con il titolo “Brenga ime shqiptare” a cura dell’ISKK. Nella prima metà del Novecento, una famiglia di migranti italiani visse la sua storia sull’onda degli eventi bellici. Un’onda lunga e perigliosa che sconquassò il mondo intero per oltre cinquant’anni.
Il susseguirsi tumultuoso e incontrollato delle politiche espansionistiche e delle operazioni militari che dilagarono in Europa e nel Mediterraneo costrinsero il parentado ad una difficile navigazione senza mai poter trovare un porto sicuro a cui approdare.
L’Egitto, la Turchia, la Grecia, l’Albania e infine il ritorno in Italia, come profughi, furono le tappe che caratterizzarono l’odissea di una stirpe straziata ma mai domata.
Alla fine dell’800 molti italiani, costretti dalla mancanza di lavoro e dalle pessime condizioni economiche nazionali cominciarono ad espatriare verso le coste orientali del Mediterraneo in quanto i paesi di quell’area avevano urgenti necessità di sviluppo ma disponevano solo di semplice mano d’opera. Fu così che una migrazione qualificata ebbe inizio e proseguì anche quando già si cominciavano ad avvertire i primi focolai di guerra sul continente europeo. Il capostipite dell’emigrazione famigliare fu Vitaliano Poselli da Castiglione di Sicilia, classe 1840, che fu chiamato a Costantinopoli, come architetto, presso i sultani Hamit I e Abdoul II. Il fratello minore di Vitaliano, Salvatore, quasi contemporaneamente, si recò a lavorare in Egitto durante la costruzione del Canale di Suez dove conobbe Giacomo Covi da Cles, nel Trentino, divenendone amico. Terminati i lavori a Suez, 1870, i due amici si spostarono in Turchia richiamati da Vitaliano. Costituirono, in seguito, un’Impresa con sede a Konia, cittadina al centro dell’Anatolia. I loro rispettivi figli, Emma Covi e Vitaliano Poselli si sposarono nel 1912, nel ’13 nacque Aurelia, nel ’16 Carmen. La guerra greco-turca fu causa di un’ulteriore migrazione della famiglia a Salonicco in Grecia, dove nel ‘21 nacque il figlio Giacomo. Pochi anni dopo, nel ’26, a causa delle mire espansionistiche del fascismo, i greci non diedero più lavoro agli italiani. Ancora una volta i Poselli furono costretti a migrare, questa volta in Albania, ad Argirocastro, dove poterono sentirsi più sicuri a causa del “protettorato” esercitato dall’Italia. In quella cittadina dai tetti in pietra grigia, Vitaliano rifondò la sua Impresa. La figlia più grande, Aurelia, diciassettenne conobbe Enver Hoxha ventitreenne che le fece una corte assidua ma venne sempre rifiutato: “amici si ma nulla più”. Enver si “legò al dito” quel rifiuto che sconvolse la vita futura di Aurelia e di tutta la famiglia, soprattutto quando, qualche tempo dopo, nel ’36, Aurelia sposò il Vice Direttore della Banca di Argirocastro, Giuseppe Terrusi, classe 1900.Valona, primissimi giorni di Settembre del ‘43. Tra gli Ufficiali Superiori vi fu un certo fermento. anche se, come Giorgio Ponte, Capitano della Milizia e addetto ai Servizi Segreti, cercarono di dissimulare quanto possibile il loro disagio. Molti si imbarcarono per l’Italia alla chetichella, altri ufficialmente. Giorgio espresse a Giuseppe le sue intenzioni di ritornare quanto prima in patria perché le cose, dal punto di vista militare, si stavano complicando.
Negli ambienti del Controspionaggio diedero per probabile una capitolazione italiana nei confronti degli Alleati. In quel caso avrebbero potuto aspettarsi di tutto, ma soprattutto la feroce rappresaglia dei Tedeschi che già si fidavano poco degli Italiani. Sarebbe stato meglio correre ai ripari prima di farsi prendere in trappola. Quel colloquio fu drammatico perché Giuseppe si rendeva conto della situazione in cui, di lì a breve, si sarebbe potuta trovare anche la popolazione civile residente in Albania. Egli lesse negli occhi dell’amico Giorgio un ultimatum: vieni via, prendi Aurelia e la tua famiglia e torna in Italia! Giuseppe era il direttore della Banca Italo-Albanese di Valona e, pur sapendo di rischiare molto, voleva rimanere a difesa della ”sua” Banca. Valona, ottobre ‘44, l’esercito tedesco era in ritirata, le truppe italiane erano allo sbando: chi aiutavai partigiani albanesi, chi isolato si nascondeva, chi provava a tornare in Italia e chi come ultimo atto di eroismo, dava la propria vita per la Patria.
Giuseppe a rischio della propria incolumità, non poteva lasciare i suoi impiegati in balia degli eventi. Doveva difenderli, non voleva fuggire vigliaccamente. Sua moglie era incinta, ma la gioia della famiglia era lacerata dall’incertezza del futuro.
Dalla lettera autografa di Giuseppe da Valona, datata 22 ottobre 1944, alla sorella a Castellaneta:“Siamo stati liberati da circa 10 giorni ed i briganti tedeschi sono andati via vergognosamente!Aurelia è in stato interessante da circa sei mesi. Siamo felici malgrado le difficili prospettive di vita.”Dalla lettera immediatamente successiva, sempre da Valona, alla sorella, datata 8 gennaio 1945:“Dal giorno della liberazione di Valona da parte delle truppe partigiane che hanno messo in fuga i briganti tedeschi (briganti nel senso peggiore), vi ho scritto tre volte senza ricevere alcuna risposta. Adesso ti partecipo una bella notizia: ti avevo scritto che Aurelia era in stato interessante da vari mesi e che tutto andava bene. All’alba del 4 corrente dopo poche ore di sofferenza, ha dato alla luce un bel maschietto. Gli abbiamo messo il nome Aldo ed è mio augurio che possa star sempre in buona salute e non abbia a passare le mie traversie.”Pochi, tra i civili, compreso Giuseppe, avrebbero potuto immaginare la tragedia che stava per abbattersi sull’Albania, soprattutto tra i militari italiani; non per tutti era finita, anzi, per moltissimi proprio ora stava per iniziare un lungo calvario. La “polveriera albanese” era esplosa!Fu la confusione più totale, arrivarono voci concitate e contraddittorie, proclami, richiami, ordini ad incolonnarsi e raggiungere i porti ed aspettare improbabili navi che avrebbero riportato in patria le truppe. Moltissimi militari italiani vennero fatti prigionieri senza che neanche si rendessero conto di cosa stava succedendo. Altri ancora cercarono di raggiungere l’Italia con ogni mezzo ed altri, infine, si unirono ai patrioti jugoslavi, greci e albanesi sino alla fine della guerra. Circa 50.000 italiani rimasero a combattere nei vari movimenti di liberazione di Grecia, Albania e Jugoslavia. Altrettanti e forse più si dispersero nelle pieghe delle società locali: rimpatriarono nella grande maggioranza anni dopo. Notizie tragicissime continuarono ad arrivare per molto tempo dal
fronte greco – albanese: migliaia di soldati furono catturati e deportati dai tedeschi in Germania. Dal canto loro i civili italiani non se la passavano meglio, erano sorvegliati, sottoposti a interrogatori, perquisizioni e requisizioni dei propri beni. Era molto pericoloso esporsi. La famiglia Terrusi/Poselli si era riunita e pressoché asserragliata al primo piano della Banca di Valona dove Giuseppe era il Direttore. Nelle strade di Valona, purtroppo, iniziarono le rappresaglie dei tedeschi contro italiani e albanesi, la guerriglia tra i due gruppi albanesi militarizzati, il Movimento di Liberazione Nazionale – MLN e il Balli Kombëtar e le vendette tra le diverse famiglie autoctone. La Banca di Valona si trovò al centro delle mire dei diversi belligeranti. La prima volta fu “visitata” dai Tedeschi che avendo trovato vuoto il caveau misero in carcere Giuseppe Terrusi minacciandolo di deportazione. Il Direttore fu liberato qualche giorno dopo in seguito all’intercessione della Direzione Centrale della Banca. Successivamente i partigiani di Hoxha forzarono i portoni della Banca, in assenza del Direttore, ed Aurelia, sola in casa, in preda al panico, si dovette calare dalle finestre del primo piano per correre al vicino Consolato Italiano e dare l’allarme. Anche in quel caso i predoni si dovettero accontentare di pochi spiccioli trovati sui banchi. Non passò molto tempo dalla liberazione di Valona che nell’aprile del ’45, tre mesi dopo la nascita di Aldo, Giuseppe venne arrestato per rappresaglia dagli albanesi del Movimento di Liberazione di Enver Hoxha. Egli non era altro che un civile innocente e privo di colpe. Il processo farsa, (tenutosi a porte chiuse), condotto da una Commissione Militare, nonostante tutte le testimonianze a favore del Direttore, tranne una evidentemente prezzolata e assolutamente inattendibile, giudicò Giuseppe colpevole di tre reati: 1- Essere Fascista2- Aver rubato i soldi agli albanesi3- Reclutare militari italiani per farli combattere con i tedeschi.
La sentenza doveva essere esemplare per dimostrare la forza del potere del nuovoDittatore: 10 anni di carcere duro. Accuse false ed odiose, esattamente contrarie al modo di vivere e di pensare di Giuseppe, (come possono testimoniare anche alcune frasi, riportate in queste pagine, delle lettere spedite alla sorella in tempi non sospetti) a cui fu perfettamente inutile opporsi. Soltanto dalla documentazione del processo, ritrovata nel 2011 a Tirana presso l’Archivio di Stato albanese, è stato possibile capire, se ancora ce ne fosse stato bisogno, con quanta ottusità, supponenza, cattiveria e ignoranza delle più basilari leggi morali e civili, si fossero mossi i giudici della “Corte di Enver”. Ad Aldo rimase solo il vago ricordo di una figura d’uomo dietro le sbarre di un carcere. Per quattro lunghi anni la famiglia subì le angherie dei partigiani ed il ricatto dei gerarchi della nomenclatura nella speranza di vedere liberato Giuseppe.
La moglie Aurelia, si rivolse a politici e istituzioni invocando clemenza per quell’uomo innocente ma la subdola risposta che ricevette fu sempre la stessa: “Lei, cosa può offrire in cambio?”. Al netto rifiuto di Aurelia di qualsiasi compromesso, le condizioni di Giuseppe nel carcere di Valona divennero sempre più dure. A nulla servirono le gesta sportive di Giacomo, fratello di Aurelia, portiere titolare della Nazionale di calcio albanese costretto dal regime a cambiare nome in quello di Giacomino Buseli. La Squadra delle Aquile vinse, sorprendentemente, le “Balcaniadi”: una sorta di quadrangolare tra Albania, Jugoslavia, Bulgaria e Romania. L’orgoglio nazionale per la vittoria insperata fu esaltato dal governo assumendo forti connotati politici e i calciatori furono innalzati ad eroi dello sport albanese. Le preghiere di Giacomo all’amico Naku Spiru, capo della gioventù albanese, per salvare Giuseppe, caddero nel vuoto. Qualche giorno dopo il loro colloquio, arrivò la notizia della morte di Naku Spiru. La spiegazione ufficiale, da fonte governativa, specificava che Naku si era ammazzato involontariamente con un colpo mentre puliva la sua pistola. Evidentemente non andava a genio al regime e avevano trovato il modo per farlo fuori. Giacomo doveva solo pensare a giocare bene e possibilmente vincere, Giuseppe doveva morire in silenzio senza creare fastidi. Aurelia con il figlioletto, madre, padre, nonna e fratello, furono sfrattati dalla loro casa di Valona e costretti a trasferirsi, sotto stretta sorveglianza, in un’ abitazione alla periferia di Tirana. Una costruzione non ultimata, ancora allo stadio di rustico, abbandonata prima della guerra da chissà chi, senza porte né finestre, priva di servizi igienici, diventò la dimora della famiglia per una vita in ristrettezze. Le prestazioni sportive di Giacomo, qualche risparmio, i lavori occasionali del nonno, imprenditore edile, consentirono la sopravvivenza, fino al momento della partenza.
Dopo tante peripezie nel 1949, senza alcun preavviso, privati di qualsiasi avere oltre i propri vestiti e 4 valige, tutti i componenti della famiglia furono comandati di portarsi con i propri mezzi al porto di Durazzo da dove sarebbero stati prelevati e trasportati, con uno sgangherato camion militare, a Valona e da lì imbarcati su una vecchia carretta del mare di nome “Stadium” con destinazione Italia.
Ad Aldo rimase il ricordo di una fredda notte di gennaio, nudo insieme a tanti altri, sotto le docce disinfettanti del porto di Brindisi. Il padre fu trattenuto prigioniero a Valona e successivamente trasferito a Burrel, un carcere politico, duro e senza speranza, dove morì di stenti nel 1952.
Sette anni dopo la fine della guerra! Perché? Al bambino rimasero solo i racconti della madre che egli visse come una tragica favola.
Nel 1993 dopo molti anni le aquile albanesi cominciarono a volare tra i primi venti di libertà. Il paese chiuso in se stesso da decenni e sconquassato dalle diatribe politiche interne, con l’aiuto della cooperazione internazionale, si aprì ad un possibile futuro nella Comunità Europea. Aldo sentì il desiderio irresistibile di ritornare nei luoghi tanto rievocati dai familiari. Nella sua memoria c’era un vuoto: mancavano all’appello quei primi quattro anni della propria vita. Tra molte difficoltà e qualche ripensamento Aldo e lo zio Giacomo intrapresero un viaggio che si annunciava difficile ed insidioso.
L’aereo atterrò a Tirana tra i bunker fatti costruire da Enver Hoxha per difendersi dall’eterno nemico occidentale.
Aldo preoccupato, riscontrò nello zio Giacomo un’espressione indefinibile, mai vista prima, sul suo volto, come rapito da ricordi e da forti emozioni. Erano passati quasi 10 lustri da quando, come profughi, erano tornati in Patria e gli occhi dello zio erano lucidi.
La città si presentò quale la dittatura italiana del periodo fascista l’aveva costruita: il fastoso viale alberato “Bulevardi Deshmoret e Kombi”, la grande piazza con il monumento a Skanderbeg, i palazzi governativi, lo stadio ” Stafa” in fondo al “Bulevardi” dove aveva giocato e vinto la squadra nazionale di calcio albanese.
Grandi ed inattese accoglienze per Giacomo, l’eroe dello sport, nella hall del famoso albergo Dajti dove egli stesso e la squadra avevano festeggiato la vittoria alle “Balcaniadi” molti anni prima. Lì si erano svolte le più importanti cerimonie degli ultimi sessant’anni: la visita di Galeazzo Ciano Ministro degli Esteri italiano del regime fascista, i ricevimenti per le vittorie politiche della dittatura comunista, le feste per le nozze di Enver Hoxha.
Rimembranze, abbracci e pianti tra i “giovani” componenti della squadra degli anni ’40.
Il direttore del Dajti, Spartaco, fece da anfitrione e ricordò con enfasi tutte le tappe di quella storica impresa sportiva. Seguirono applausi, strette di mano e qualche lacrima sui volti emozionati.
Il salone delle fes
te con le sue prorompenti tende rosse e i grandi lampadari di vetro di Murano, l’imponente scalone con le colonnine della balaustra cadenti, le stanze stile impero con le tappezzerie logore, i mobili e le suppellettili con la patina del tempo, sembrarono aver ritrovato i fasti del passato. In compagnia degli amici albanesi, zio e nipote ripercorsero le strade ed i luoghi testimoni dell’odissea di molti anni prima. Il rustico incompiuto di Tirana era risorto al rango di villa ed aveva anche i balconi, la casa dei nonni a Valona era poco più di un rudere così come le carceri dismesse che erano diventate un monito per le nuove generazioni. Perfino l’insegna e la struttura della Banca dove Giuseppe era stato Direttore, a parte il significato, non era cambiata molto, dagli anni dell’ occupazione italiana titolava: “BANKA KOMBETARE E SHQIPNIS” mentre ora era “BANKA E SHTETIT SHQIPTAR”; anche le stanze dove Aldo aveva visto per la prima volta la luce, i mobili e le tende risentivano del peso di quegli anni.
Il porto di Durazzo dal quale i componenti della famiglia avrebbero dovuto essere imbarcati verso l’Italia, come profughi, era ancora costellato da inutili bunker. Fili spinati circondavano l’area portuale e militari in assetto da combattimento vigilavano sui moli.
Come in un incantesimo il tempo sembrava essersi fermato a cinquant’anni prima. Il sottoscritto stava vivendo allora i quattro anni mancanti della propria storia. Grazie a particolari autorizzazioni, io e lo zio fummo accompagnati all’ex carcere politico di Burrel. Un luogo lontano da Dio e dagli uomini nel vero senso della parola.
Per arrivarci percorremmo una strada infernale, tortuosa, spesso sterrata, piena di buche che si incuneava, con pericolosi tornanti, tra brulle montagne e vallate incolte, guadando sassosi torrenti e attraversando traballanti ponti. Dopo qualche ora di fuoristrada, da Tirana verso nord-est, giungemmo al famigerato carcere, un edificio basso e fatiscente, circondato da due file parallele di reti arrugginite intrecciate con filo spinato.
Alcune guardie, in veste di guide, presidiavano quello che era stato il luogo più temuto dagli albanesi. C’erano una ventina di celle buie lungo un corridoio interrotto da cancelli. Ogni cella aveva cinque materassi a terra e una piccola apertura esterna con sbarre. Un’unica cucina era destinata sia alle guardie che ai carcerati, poco distanti si trovavano sei cessi in cemento comuni a tutti. Al centro del fabbricato, la stanza delle torture e l’infermeria.
Due persone, Angelo Kokoshi e Pietro Velai, sopravissute agli orrori, avanti negli anni e provate nel fisico si presentarono come i compagni che avevano condiviso con Giuseppe quell’odioso periodo e fecero a gara per raccontare le loro disavventure. Iniziò Angelo:“Tuo padre lo hai conosciuto attraverso i racconti di tua madre e tuo zio, ma la sua vera natura era quella vissuta tra noi, nei terribili anni di prigionia, durante la dittatura di Enver, quando ci trattavano come “Nemici del Popolo e Criminali di Guerra”. Non eravamo considerati esseri umani ma solo animali da sterminare, insomma noi eravamo come microbi contagiosi. Mi dispiace riferirti cose che per te sono dolorose, ma caro amico, devi essere orgoglioso di tuo padre che non si è mai piegato malgrado le pene disumane che quei disgraziati, trasformati in animali dall’ideologia Marxista, ci infliggevano. La sofferenza si tramuta in orgoglio, passione e forza di sopravvivenza. Dentro di te nascono l’odio ed il rancore che crescono al rinnovarsi delle ingiurie di quegli aguzzini ma aumentano la solidarietà con chi condivide la tua sorte.”Continuò Pietro:“Caro Aldo! Tu sei il figlio del Direttore! Lui è stato un grande uomo: ci spiegava la politica, ci leggeva i giornali, aiutava le nostre famiglie. Noi siamo stati in carcere con lui e lo conoscevamo bene. Lo hanno messo dentro ingiustamente, era un grande italiano. Per tuo padre sono stato un vero amico, lo dico sinceramente e onestamente davanti a Dio e alla sua anima. In quegli anni di carcere sia a Valona che a Burrel, abbiamo diviso non solo il boccone e le sofferenze ma anche qualche brandello di gioia, se possiamo chiamarla così, pochi magici momenti che capitavano spontaneamente e svanivano rapidamente.”Dio non distingue tra cristiani o maomettani, tra italiani e albanesi. Dio è di tutti. Sia lodato.” Nell’ascoltare quelle parole, così profondamente umane, la mia emozione raggiunse limiti mai provati prima, mi sforzai di assumere un atteggiamento di circostanza ma non riuscii a controllare né i miei movimenti né i miei pensieri, mi sentii confuso, quasi stordito, come il protagonista di un sogno da cui non riuscivo a liberarmi.
Quelle parole dette con semplicità in uno stentato italiano mi fecero trasalire: io ero il figlio di un padre importante, di un uomo che gli stessi albanesi avevano ammirato e che tuttora ricordavano con onore ed affetto. Si, io ero il figlio di quel padre che era morto per coerenza con il suo ideale di vita.
Il cuore mi palpitava d’orgoglio e la commozione mi permise solo un breve sorriso di consenso rivolto a quei due poveri uomini, che erano stati testimoni diretti di tante crudeltà.
Il meno provato e forse il più giovane dei compagni di cella, tra l’orrore e la commozione generale, descrisse le torture che lì si praticavano, le brutalità dei carcerieri, le morti cruente e gli ultimi momenti di vita di Giuseppe, quell’unico italiano, così buono ed indifeso da incutere la forza di resistere anche a loro. Erano troppo importanti per Angelo quei ricordi, finalmente aveva di fronte degli interlocutori interessati che lo avrebbero ascoltato fino in fondo:“Avevo 21 anni quando mi condannarono a morte.
Sono rimasto per 76 giorni legato mani e piedi come un cane. Per costringermi a firmare la denuncia contro altri miei compagni mi fecero scavare per tre volte la mia tomba, ma non mi sono mai arreso.
In carcere c’erano anche mio padre e mio zio. Di mio fratello a Tirana non sapevo nulla.
Quando mi hanno graziato la vita commutandola in ergastolo, ho saputo della morte di mio padre: due giorni dopo è stato fucilato mio fratello.
Tre giorni dopo la mia uscita dall’isolamento, mio zio morì tra le mie braccia.
Mia madre per il dolore morì qualche giorno dopo.”Il racconto di Angelo mi fece accapponare la pelle: la sua era stata una vera tragedia. Ci guardammo l’un l’altro ma di fronte a quegli avvenimenti ci sentimmo tutti piccoli piccoli e sprofondammo nei nostri pensieri quasi a nasconderci.
La vecchia guardia, che faceva da guida al piccolo drappello, annuiva con freddezza al racconto di quanto avveniva lì negli anni tra il ’30 ed il ’50. Quante altre tragiche verità avrebbe potuto raccontare che rimarranno sepolte ma indelebili nella sua memoria!Una delle torture consisteva nel rompere le ossa delle braccia, delle gambe o le costole della “testa calda” e abbandonarlo in “infermeria”: se era abbastanza forte sopravviveva altrimenti… tutto ciò accadeva di notte in modo che le urla del poveretto si potessero sentire in tutto il carcere al fine di terrorizzare i reclusi.
Spesso capitava che dopo le percosse il carcerato venisse legato mani e piedi e immerso in un fusto colmo d’acqua. Lasciato all’intemperie durante la fredda notte invernale al mattino dopo era congelato. Il cadavere avvolto in un lenzuolo veniva gettato in una fossa ben visibile dalle celle. Il macabro rito era accompagnato da cori di scherno delle guardie nei confronti del cadavere e dei carcerati ancora vivi.
Anche Giuseppe era là, nudo, sotto la terra fredda di una fossa, nel campo all’interno della recinzione del carcere di Burrel, stretto in un abbraccio con i suoi amici albanesi che avevano subito la sua stessa sorte. Né la Banca d’Italia, né la Croce Rossa Internazionale, né il Governo italiano poterono o vollero fare alcunché. Molte furono le responsabi
lità a cascata delle varie Autorità ma nessuno se ne fece carico. Era meglio “seppellire” fatti, cose e persone che avrebbero potuto creare imbarazzo alle alte gerarchie dello Stato Italiano e a quello Albanese.
Dal canto suo Enver Hoxha non chiedeva di meglio, aveva ottenuto la sua vendetta personale nei confronti di Giuseppe e della sua famiglia. Dopo tanti anni, vissuti nel ricordo e nell’amarezza di non aver potuto riavere le spoglie del padre del proprio figlio, anche mamma Aurelia aveva raggiunto Giuseppe, il solo grande amore della sua vita terrena. Ancora oggi la mia Odissea non è finita, nonostante le molteplici richieste mie e delle Istituzioni italiane al Governo albanese per la riesumazione delle spoglie dei detenuti morti nel carcere di Burrel e le promesse di intervento dalle più alte Autorità e dai vari Ministeri, le ossa di quegli uomini sono ancora sotto la fredda terra di quel luogo famigerato.
Mi domando perché sia così difficile intervenire in quel campo, compreso tra le due recinzioni del carcere. Sono stato accompagnato su quel terreno più volte, ogni volta che ho chiesto informazioni le risposte sono state sempre vaghe e inconcludenti, spesso contraddittorie. Nessuno sapeva o non voleva dire cosa era realmente accaduto, in quel luogo, tra gli anni ’40 e ’50. Paura, conflittualità, complicità, omertà? Credo che sarebbe utile alla politica albanese, considerando la giusta propensione all’ingresso nella Comunità Europea, non continuare a coprire il proprio passato.
Per evitare incomprensioni e accuse indebite sarebbe sufficiente intervenire scientificamente, con scavi precisi e coordinati, in modo da non lasciare più dubbi ad alcuno e far riemergere finalmente la verità sulle sepolture all’interno del carcere di Burrel.