Era l’ottobre del 2011 quando lo incontrai per puro caso durante una protesta giovanile, del genere “marciate sulle strade.” Sembrava uno straniero con la macchina fotografica in mano che ci immortalava! Dopo la protesta, ci sedemmo vicino a una fontana nei pressi della “Piramide”.Una volta finito tutti di parlare, egli cominciò a dare indicazioni in modo che anche gli altri scendessero nelle strade e ci fossero maggiori proteste del tipo Occupy a Tirana! Lì iniziò poi a raccontare della primavera araba, dato che eravamo tutti intenti ad ascoltare. Era da più di un anno che volevo fare un’intervista con lui. Vudi non dà assolutamente l’impressione di essere albanese, né dalla pronuncia né dall’aspetto fisico. Se cerchi su Google il nome Vedat Xhymshiti, troverai una serie di foto nei luoghi più pericolosi. Nonostante quella specie di positività che sembra intrinseca al suo carattere, mi stupisce il fatto di come guardi il fronte di guerra! Dopo una lunga attesa per ottenere qualcosa in più che semplici domande legate al fotoreportage, ora ce l’ho finalmente di fronte. Lei è originario del nord Albania, quindi Kosovo, o del sud?
Sono originario del nord.Come ebbe inizio il suo contatto con i media più importanti e in quali paesi ha svolto e svolge la sua attività di fotoreporter? Come mai ha iniziato questo lavoro, casualmente o in seguito a un precedente desiderio?
Stavo per iniziare gli studi di giornalismo ed ero particolarmente interessato alle guerre. Quando cominciai a interessarmi maggiormente all’incessante conflitto nella striscia di Gaza o nel territorio palestinese occupato, decisi di impegnarmi in un’attività sorvegliata dall’agenzia americana “Zuma Press” e si trattava di un lavoro richiesto dal prestigioso giornale americano “The New York Times“. In seguito ti si chiede solo di sfogliare i giornali in cerca di notizie, informarti anticipatamente sugli ultimi sviluppi dei conflitti e in base al loro contenuto scegliere dove andare, ti prepari, informi l’agenzia, esprimi le tue preferenze e parti … Finora mi sono occupato della Striscia di Gaza, della Costa Occidentale, del conflitto russo-georgiano, come anche della primavera araba, a partire da Tunisi fino all’Egitto. Dal mese di maggio fino al 20 di agosto ho fatto reportage della guerra civile in Siria. Ho lavorato per molti media europei e americani: “Der Spiegel”, “International Herald Tribune”, “Zuma Press”, “Sipa Press”, “Polaris Images”, “Die Welt”, “Die Presse”, “Swiss Sunday TIMES”, “Daily Telegraph”, “NYTimes”, “Al Jazeera English”, EPA, AFP, APTV, ecc. Tutto questo è frutto di un desiderio precedente, nato già ai tempi della Guerra in Kosovo, di cui non posso fornire ulteriori dettagli. Dopo questa conversazione, sa già qual è la sua prossima meta?
Sono consapevole del rischio di morire che mi attende, ma sento che questa è la via più giusta da seguire, perché devo portare a termine questa indagine. Sperando che nessun altro paese oltre la Siria abbia bisogno di reporter che possano fungere da testimoni delle loro cruente esperienze. In questo tipo di viaggio non mi può succedere nulla di inaspettato, il minimo consiste nella possibilità di sopravvivere per poter raccontare l’accaduto, oppure il pericolo di turno che potrebbe essere la morte. Si tratta di guerra ed è possibile che io venga ucciso, visto che il luogo in cui andrò ora è il più pericoloso fra tutti quelli già visti. Ma io parto come volontario per questa iniziativa, nonostante tutte le difficoltà. Per pochi giorni sarò in Kosovo, poi tornerò molto presto in Siria dopo una serie di incontri con i direttori di riviste europee mensili che trattano notizie dal mondo a Zurigo, Amburgo e Londra. Perché mai dovrebbe mettere in pericolo se stesso oggigiorno? Per fama? Si è mai fatto prendere dal panico o da una crisi del momento mentre scattava una foto, di fronte a un pericolo per cui non sapeva trovare una via d’uscita?
Sì, può succedere anche questo quando manca la coordinazione col partner con cui ti trovi durante l’operazione e si entra in panico, o meglio in una situazione che noi usiamo chiamare “suicidio”. In guerra non c’è ordine, chi vive e chi muore: “in guerra muoiono tutti” diceva Newton, tutte le guerre sono mortifere e di conseguenza pericolose, ma la guerra nella repubblica araba di Siria appartiene a un ordine di pericolosità maggiore. Il giornalismo indipendente oggigiorno è una delle professioni più sottopagate, per cui non mettiamo a rischio la nostra vita per fama. Si tratta invece del fatto che noi giornalisti e fotoreporter indipendenti sentiamo come una sorta di obbligo nei confronti dell’umanità entrare laddove non entra nessun altro e darne testimonianza. È risaputo ormai che in quasi tutti i conflitti del XIX, XX e XXI secolo le prime notizie e le foto date al pubblico internazionale sono state fornite da fotoreporter indipendenti. Parliamo ora della situazione del tempo nella guerra. Qual è il periodo che ha lasciato a Vudi i più bei ricordi? Si vede che teme per la sua vita! Si è mai trovato in tanti e vari pericoli, magari è stato aggredito o le è stata rotta la macchina fotografica, ecc?
Il 28 maggio di quest’anno, dopo essere stati inseguiti da un elicottero nella città confinante del nord della Siria, mi si sono danneggiate le attrezzature dai pezzetti di cemento che hanno colpito me e le attrezzature, appunto, risultato dei bombardamenti che colpivano le case fra le quali correvamo per metterci in salvo. Le attrezzature hanno subito danni in tre casi anche in Kosovo, due volte dalla polizia, intervenuta violentemente con l’intento di eliminare i testimoni dei loro atti violenti -che in quel caso eravamo noi media-, una volta invece dai serbi del nord del Kosovo mentre ne stavo registrando gli sviluppi conflittuali. La paura della morte è quella che mi tiene in vita. Dal momento che gli esseri umani si uccidono l’un l’altro non posso ricordare un periodo che mi abbia veramente regalato dei bei ricordi. Come comincia la sua giornata? Come lavora?
La mia giornata comincia di solito con uno sguardo fuori dalla mia finestra, verso dove sorge il sole, anche se in realtà non è sempre così. Comunque, continua con la prima visita alla toilette per poi accomodarmi al PC e consultare la mia posta elettronica; in seguito definisco la mia agenda giornaliera. Se dovesse capitare che non ho nessuna operazione da coprire decido se leggere il libro che magari ho in mano in quel periodo oppure scrivere le mie memorie sul diario-libro della mia vita. Una sola foto può far comprendere molto: come spiega questo? Che tipo di apparecchio usa di solito e vive maggiormente in mezzo alla guerra o alla pace? Uso una Canon 1D Mark II,e possiedo due apparecchi. Uno l’ho comprato da solo con l’aiuto che mi diede Rory Peck Trust, l’altro invece l’ho ottenuto da Jani Jance, un fotografo albanese che vive a Londra. Una foto è sufficiente per comprendere un solo momento, ma non tutto il resto. Sin dall’inizio avevo iniziato con Canon e ho continuato con quella, non mi ha mai dato problemi e non ho mai avuto motivo di cambiare idea a favore di qualche altra marca, comunque si tratta solo di un attrezzo elettronico tramite il quale realizzi il tuo obbiettivo di registrare e documentare il tuo reportage come giornalista in loco. Io vivo nella guerra per poter riuscire a trovare un po’ di pace dentro me stesso, ma raramente la trovo. A casa, con gli amici e la famiglia trascorro all’incirca tre mesi all’anno. È molto difficile portare cambiamento all’interno di un regime violento.
Cosa si aspetta che succeda ora in Siria? È difficile da capire quando non agisci, ma non lo è per nulla una volta che hai cominciato ad agire contro un regime violento. Finché tu non agisci contro il regime, il regime non cessa di agire su di te e la sconfitta da parte del regime, inteso anche in senso psicologico, è un terrore che va al di là dell’umanità. Ma la guerra civile in Siria non riguarda solamente i diritti umani. Comprende anche l’altra faccia della medaglia, ossia appartiene a un genere particolare in quanto si tratta dei diversi credo all’interno di una stessa religione. Non posso dare ulteriori conferme, dato che le complicazioni aumentano sempre di più e vengono continuamente fuori nuovi fatti; ora come ora è piuttosto difficile confermare i moventi più considerevoli, che richiedono un’ulteriore spiegazione ancora da vedere. Dicono che i reporter di guerra siano all’incirca cinque volte più sensibili ai problemi legati allo stato di salute emotivo rispetto al resto della popolazione … È vero? È vero, ma a differenza degli altri noi siamo sensibili per quanto riguarda il cosiddetto fattore uomo: ovunque si creino danni agli esseri umani noi lo viviamo in modo tragico. Quindi non tendiamo a stabilire di chi sia la colpa o meno, è sufficiente che il ferito o il morto siano esseri umani. Lei è cosi giovane,eppure ha scelto di fare questo lavoro! Quando penso che abbiamo quasi la stessa età e che ci sono molti altri che non fanno nulla, personalmente mi vengono dei sensi di colpa! Per quanto tempo pensa di continuare con questa professione, non so se ha dei figli o se magari è sposato? Cosa ci racconta della sua famiglia?
Non sono sposato: con il lavoro che faccio è difficile trovare una partner che provi perlomeno a comprenderti. Ma preferisco descrivere più facilmente come mia famiglia coloro con cui vivo nella guerra per la pace e nella pace per la guerra. Secondo lei si può dire che viviamo nell’epoca della fotografia?
Quasi tutti sono in possesso di macchine fotografiche, ma questo non vuol dire che viviamo nell’epoca della fotografia. Non tutti possono essere fotografi così come non tutti possono fare i camerieri, i presidenti o gli scrittori. Io ho 26 anni, faccio questo lavoro dal 2008 e non so fino a quando continuerò a farlo. Visto l’amore che nutriamo per questo lavoro, sembra che moriamo mentre lo esercitiamo, ma questo succede solo quando la professione ama noi a sua volta.
Secondo lei perché c’è così tanto spargimento di sangue nei posti in cui lei ha lavorato? Con chi e con cosa vi muovete nei posti di guerra?
Nei posti di guerra, quando si tratta di terreno sulle vie del fronte, mi muovo solitamente con le forze ribelli, essendo particolarmente interessato anche ai loro racconti e alle esperienze dei civili; cerco così di capire, infatti, gli effetti della guerra nella vita delle persone semplici, che non sono altro se non vittime del tempo di guerra. Però mi muovo anche con una vecchia macchina bianca del tipo 1949 Plymouth 4-door sedan e con una moto Honda Astra 90. È difficile trovare un PERCHÉ. L’interesse degli occidentali a creare il mercato libero e il bisogno dei popoli di liberarsi dalla tirannia repressiva si stanno intrecciando sempre di più l’uno con l’altro; ormai basta una piccola spinta sia dall’ esterno sia dalla regione in questione perché prendano il via ribellioni pacifiche, che spesso si concludono con rivolte armate le cui conseguenze pesano solo sui semplici cittadini inermi. Discorrendo con lei, vorrei saperne di più sulla storia del bambino nella borsa. Me la racconti ancora una volta.
Durò solo pochi minuti, dopo che l’aereo d’attacco terrestre Sukhoi, di produzione russa – distruttivo e anche molto rumoroso-, aveva attaccato la parte sud del quartiere Salaheddin di Aleppo il 18 luglio 2012, da dove molte famiglie avevano deciso di allontanarsi, dirigendosi verso il nord della Siria. Poi continuavano con i campi profughi in Turchia, ma per poter passare al nord queste famiglie dovevano passare in mezzo a strade potenzialmente sotto il controllo delle forze del governo. Una bambina di 7 anni rimase talmente traumatizzata dai rimbombi e dagli attacchi che non smetteva di piangere, e i genitori per paura la misero dentro una borsa: dopo 30 minuti non la si sentiva più piangere. Io salii sulla loro piccola camionetta e fingevo di essere un civile con problemi psicologici, nel caso ci avesse fermato la polizia. Fummo molto fortunati perché non ci fermarono, mentre il motivo per cui la bimba fu messo nella borsa era che si doveva riuscire a muoversi da sud a nord con la massima discrezione. Questa, perlomeno, fu la spiegazione dei genitori del fatto. Dopo due ore di viaggio ho trovato la piccola in stato incosciente. Le gettai dell’acqua e poi colpii il lato dell’autista nella camionetta, chiedendo al padre di guardare la bambina e di fare qualcosa. Così si fermarono, le gettarono addosso dell’acqua e lei si risvegliò. La madre invece si spaventò a tal punto vedendo la bambina in quello stato che per poco non morì lì sul posto. Si salvarono tutti alla fine, e ora sono nel campo dei rifugiati in Turchia. Ci sono molte cose che dovrebbero essere scritte assolutamente, e credo che lei abbia intenzione di scrivere un libro con dei reportage. Quanto tempo deve trascorrere nelle zone di guerra? Solitamente dove sta e per quanto ha intenzione di continuare con questa professione?
Sì, infatti sto seguendo un tema molto interessante affiancato al reportage; mi auguro di sopravvivere per poter portare a termine questa relazione, dato che devo ritornare di nuovo in Siria. Quando giro nelle zone di guerra preferisco stare con i civili, perché sono sempre interessato a documentare le loro esperienze, anche se in molti casi sono costretto, a causa delle circostanze, a vivere con i civili armati. Non ho una casa. Vivo ovunque e da nessuna parte. Eserciterò questa professione fino a quando la professione comincerà a odiarmi. In guerra è normale e usuale fermarsi da tre a sei mesi al massimo, sia per motivi di salute mentale e psicologica sia per motivi di sicurezza. Hanno mai tentato di ucciderla o ha subito incidenti di percorso per cui non si trova rimedio, ad esempio quando si è costretti ad arrendersi? Dove ha rischiato la vita?
Di problemi ne ho avuti e ne ho dappertutto! In Kosovo, a Tunisi, in Egitto e ultimamente anche in Siria. Sono stato ferito da due proiettili da uno snaiper del calibro 7,62 mm, ma per fortuna mi hanno colpito le placche dell’antipiombo, essendo stati scagliati da una distanza di circa mille metri. Per noi che guardiamo gli avvenimenti solo tramite la tv, che cos’è la paura di un reporter di guerra?
Per un reporter di guerra la paura è l’elemento psicologico che lo tiene in vita. Anche i rumori degli aerei che attaccano sono tremendi, ti spaventano a morte, e poi gli attacchi dell’artiglieria terrestre. Inoltre, là dove sono stato io, c’erano anche civili che avevano contrattato col governo e col dipartimento della difesa e dell’intelligenza: dunque erano dei veri e propri killer a pagamento. Dovevano portare teste umane agli uffici della polizia o degli dipartimenti dai quali erano stati incaricati, per ognuna delle quali ricevevano 50 dollari. Mi ricordo la confessione di un uomo siriano che non aveva più pane da mangiare. “ Non avevo un posto di lavoro, raccoglievo lattine e ferraglia. A causa della guerra giunsi in una situazione tale in cui gli uomini non consumavano più lattine e non sapevo dove recuperarle, e sentii dire che il governo pagava bene per la testa di un ribelle. Così mi presentai presso una pattuglia dell’esercito e chiesi di essere assunto: mi dissero che la testa di uno dei
protestanti valeva 50 dollari, provai a cercare teste di morti da presentare loro, ma non ne trovavo, perciò dovevo uccidere. Cominciai a farlo, uccisi tre persone incontrate in uno dei quartieri indicati dal governo, presi le loro teste e le mandai alle autorità, le quali mi pagarono 150 dollari.” L’uomo che raccontava queste cose è stato prigioniero dell’Esercito Liberatorio della Siria. Dicevano di non avere prove sufficienti per poter testimoniare la sua dichiarazione, ma la tengono in considerazione visto che l’uomo si è pentito delle azioni commesse. Cosa significa per lei scattare foto nei posti di guerra? È la realizzazione di un sogno?
Scattare foto nelle guerre per me significa essere testimone dei crimini dei criminali, che si impegnano a uccidere persone, e allo stesso tempo costituisce una missione vitale per poter spingere gli uomini a riflettere e divenire consapevoli di queste realtà, in modo da svegliarsi ed evitare che accadano altre tragedie del genere. Non sono né il primo né l’ultimo che la vita ha reso responsabile di questo tipo di missione, ma non sono sicuro e sono inoltre terribilmente e continuamente preoccupato non sapendo fino a quando continueremo ad essere testimoni di simili sanguinose tragedie tra uomini. La mia fotografia verrebbe svalutata solo quando nella sua composizione non ci fosse più sangue umano.
Pubblicato sul quotidiano Shqip del 19 settembre 2012. Titolo originale “Fotografi shqiptar i luftës” .Tradotto per AlbaniaNews da Daniela Vathi.