La sua voce, adesso, non è più stanca, ha ritrovato l’entusiasmo di sempre. Lui parla e non si ferma più: ha voglia di sentirsi felice, di sentirsi forte.
Tra qualche giorno, devo ancora fare l’ultimo tampone, dice al telefono, ma adesso mi sento bene, penso di essere guarito definitivamente e di non tornarci di nuovo in ospedale. Sono a casa, vicino ai miei affetti: a mia moglie e mia figlia, mi sento bene…
Si chiama Ilirjan Kristo, ma per tutti che lo conoscono, è Tardeli, visto che era tifosissimo, dai tempi della dittatura, del più celebre centrocampista, eroe del mondiale del ’82. Vive a Como, dove abita anche il suo idolo ed oggi, anche suo amico.
Da tre giorni ha lasciato l’ospedale, dove ha vinto la sua battaglia contro il temuto coronavirus.
Era l’ 8 marzo, quando capì che qualcosa non andava bene nel mio corpo racconta. Ho chiamato il 118 e dopo quattro ore sono stato ricoverato in ospedale, isolato in una stanza, in attesa del responso del tampone.
E poi?
Dopo due giorni il risultato è arrivato: ero positivo del coronavirus, ma lo avevo già capito, perché la febbre non diminuiva.
Molta febbre?
Durante il giorno qualcosa di meno, ma, per undici notti, avevo la febbre 39, sudavo in continuazione. Mi sentivo un leone ferito, ma avevo promesso a me stesso di lottare e non arrendermi. Dovevo vivere per me, per la mia famiglia e per tutti gli amici che mi sostenevano.
Avevi il cellulare in ospedale?
Si, anche dei libri di Dostoevskij che mi ero portato da casa. Comunicavo con i miei, ma dopo qualche giorno, preferivo solo i messaggi su Whatsapp.
Perché?
Ero debole, non avevo forza di parlare, ma anche perché non volevo far capire a loro che non stavo tanto bene. Sai, non potevo permettere che loro stessero male a causa mia. È stato un sollievo quando ho saputo che loro due sono risultate negative al tampone: avevo paura di averle contagiate.
E non ti chiedevano il perché tua moglie e la figlia?
Dicevo a loro che avevo la maschera d’ossigeno e non riuscivo a parlare, che le persone accanto al mio letto stavano molto male e non volevo sentirmi privilegiato nei loro confronti.
Avevi la maschera d’ossigeno?
Si, per cinque giorni perché avevo problemi polmonari e respiravo a fatica.
Qualcuno degli altri pazienti stava peggio di te?
Si. Un uomo anziano, vicino al mio letto, non c’e l’ha fatta: è morto. Mi considero forte, ma ho pianto per lui. È morto in solitudine, tra le mura della nostra stanza d’ospedale, lontano dai figli e dai nipoti che voleva abbracciare per l’ultima volta.
Hai mai avuto paura di non farcela?
Io lottavo, ma quando vedi che di fianco a te, c’è gente che muore, forse, un po di paura la provi.
Perché, non arrivi a capire dov’è il confine tra la vita e la morte, non sei in grado di capire se sei più vicino a una o ad altra. Portano via uno che è appena morto vicino a te e guardi in faccia gli altri, pensandoci, quale di noi sarà il prossimo. Ma poi, passato lo shock iniziale inizi ancora a darti coraggio e a ripetere che devi vincere te e non la malattia.
Cosa dicevi, cosa pensavi?
Niente di particolare. Mi veniva in mente che al mio scrittore preferito, Dostoevskij, comunicarono la grazia quando era pronto alla morte, sul patibolo. Mi ispiravo ad lui e ad Beethoven, il quale scrisse la Nonna Sinfonia quando era completamente sordo. Trionferò anch’io, mi dicevo.
Come ti curavano?
Mi hanno fatto delle flebo, mi davano della tachipirina liquida… cose del genere, compreso, degli antibiotici.
Come è la situazione negli ospedali?
Da fuori non si percepisce la gravità della situazione, la gente legge o sente solo dei numeri. Ma il dramma lo vivono i malati ed i loro parenti, i quali aspettano con ansia, solo pregando, che non gli arrivi mai una telefonata da un medico che annunci il decesso del loro caro. Voglio ringraziare tutti i medici e gli infermieri che mi hanno curato, che ci hanno voluto bene. Avevano delle maschere e non li ho mai visti in faccia, conosco solo le loro voci. Prego che vincano anche loro questa battaglia, sia professionale, sia umana, e sia di vita. Sono loro i più esposti ai rischi e alla morte. Sono degli eroi…
Buona fortuna Tardel!
Buona fortuna a tutti quelli che lottano per la vita. Saluto tutti gli amici albanesi ed italiani. E spero che la gente stia chiuso in casa e segua le direttive delle autorità.
Spero anche che in Albania certa gente che gira per le strade, sia più responsabile e non giochi con la vita altrui.
Speriamo che il tuo appello venga recepito.
Vorrei aggiungere un’altra cosa. Tutta la mia vita ho aiutato i miei amici più bisognosi di me. Ma, oggi, dopo aver visto la morte in faccia, mi sento colpevole di non aver fatto mai abbastanza. Non vorrei passare per patetico, dico solo che bisogna dare più amore al prossimo, più sorriso ai meno fortunati. La sofferenza si combatte solo con amore, solo con solidarietà. Vi abbraccio.
Anche noi.