Leta è una giovane madre single di Tirana con grosse difficoltà economiche. Vaga per la periferia della capitale albanese come una sorta di fantasma, con in braccio suo figlio di appena un anno, in cerca disperata di un lavoro.
Leta è la bravissima Ornela Kapetani , capelli raccolti e il volto segnato da una vita precaria, alla quale vuole sottrarsi ad ogni costo. Quando lei e il bambino vengono sfrattati – per non aver pagato gli ultimi mesi d’affitto – si trasferiscono da Sophie, un’anziana donna paralizzata che ha bisogno di assistenza giorno e notte
La precarietà di Leta si aggrapperà così alla vita di Sophie, che dev’essere tenuta in vita con ogni mezzo per scongiurare il baratro. Leta è la protagonista di Daybreak (2017), il lungometraggio d’esordio del giovane Gentian Koçi. Un nome che pare già proiettato verso le alte volte del firmamento d’autore del cinema europeo.
L’anno scorso il nome Daybreak è rimbalzato sui media di tutto il mondo, quando fu selezionato a rappresentare l’Albania agli Academy Awards, nella sezione dedicata ai film in lingua straniera. Un segnale positivo di una fervente stagione artistica sull’altra sponda dell’Adriatico, dopo la lunga parentesi isolazionista del regime di Enver Hoxha.
E del film, di Albania e di cinema ne abbiamo parlato direttamente con Gentian:
Qual è stata la genesi di Daybreak? A cosa ti sei ispirato per il personaggio di Leta?
Il film non è altro che il risultato di mie quotidiane osservazioni di ritratti di persone per le strade di Tirana. Si percepisce dalle loro espressioni – o almeno è il modo in cui li ho interpretati – quanto difficile sia per loro combattere per un lavoro o una vita migliore, in una quotidianità piena di insicurezze e contingenze.
Tutte queste sensibilità condensate hanno preso, in maniera molto spontanea, la forma di un personaggio femminile. E così è nato il personaggio di Leta. Ritengo che ciò che definisce le nostre società oggi è l’insicurezza in tutte le sue possibili modalità. Questo è uno dei motivi per cui le persone lottano l’uno contro l’altro invece di lottare con e per l’altro.
Com’è cambiato il cinema albanese dal regime comunista ad oggi?
Sotto la dittatura di Hoxha sono state prodotte numerose pellicole, ma la maggior parte erano film di propaganda. A causa dell’isolazionismo, solo poche potevano uscire dai confini e partecipare ai festival, incontrare un pubblico internazionale. Questo è il principale motivo per cui il cinema albanese è erroneamente considerato un “cinema giovane”.
Con la fine del periodo comunista, il nostro cinema ha provato a ridefinirsi in termini di produzione ed estetica del linguaggio per integrarsi nei circuiti internazionali, e allo stesso tempo per riflettere una realtà di transizione, che appare ancora piuttosto lunga e tormentata sia dal punto di vista politico che sociale, ma molto diversa da quella di prima degli anni ‘90. In questi 28 anni, nonostante budget molto discreti, il deterioramento del vecchio sistema di distribuzione e la mancanza di un’alternativa efficace, molti registi albanesi sono riusciti a creare pellicole di qualità, selezionate in prestigiosi festival e collezionando diversi premi.
Negli ultimi cinque anni, un gruppo di giovani registi sta provando a proporre un nuovo linguaggio estetico. Sono più che convinto che la loro vitalità artistica porterà il nostro cinema a un livello superiore. Si sentirà molto più parlare di cinema albanese in futuro.
Daybreak è capace di tener salda la propria identità partendo dal particolare per raggiungere un certo universalismo: quanto si può percepire della quotidianità a Tirana oggi?
Decisamente racconta la vita di tutti i giorni a Tirana, quella che non si percepisce a fondo a meno che non si penetri intimamente nelle battaglie delle persone. Questo è il motivo per cui ho preferito lavorare poco con gli esterni, dove la vivacità delle strade può magari dare la falsa impressione di una città immersa in dinamiche efficienti, piuttosto ho preferito tenere la telecamera in spazi chiusi, in piccoli appartamenti, nei café, negli angoli dimenticati della città, dove i drammi crudi si sviluppano attraverso numerose prospettive. In questo senso, la storia è profondamente radicata in ciò che sento e percepisco come drammi nascosti e silenziosi della mia città, Tirana, dove sono nato e ho sviluppato la mia passione per il cinema.
L’introspezione sgorga dal film ad ogni fotogramma: è questa la chiave per un messaggio universale?
Dal mio punto di vista, ciò che sgorga dalle scene è un sentimento parecchio complesso e contrastato. I due personaggi principali, la donna giovane e l’anziana, dipendono l’una dall’altra. L’una può essere tranquillamente ridotta a strumento per l’altra.
Ma è esattamente attraverso questa prospettiva che entrambe sviluppano una relazione molto tenera e intensa. E ci può essere tenerezza e rispetto persino in un gesto incomprensibile o oscuro. Il film fa emergere questioni etiche da una complicata situazione sociale, i cui effetti si dipanano su un piano esistenziale. In questo senso, il film può essere avvertito e compreso da qualsiasi spettatore.
Parliamo del tuo secondo film: cosa puoi anticiparci?
La storia a cui sto lavorando è un dramma esistenziale di due fratelli gemelli sordomuti, identici e sulla quarantina, che scoprono che a causa di una malattia genetica, diventeranno ciechi, in maniera separata ma progressiva e irreversibile.
Lentamente immersi in un insostenibile oscurità silenziosa, non più capaci di percepire il mondo e di guardarsi l’un l’altro, i due fratelli si troveranno a prendere una decisione forte. Lo scorso agosto, il progetto ha vinto il premio “Cinelink’s development” al Sarajevo Film Festival. In questo momento la mia società, la Artalb Film Productions e la co-produttrice Graal Films di Atene, stanno sviluppando la struttura del progetto. Le riprese cominceranno nel 2020.
Autore: Dino Buonaiuto