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Home Cultura Interviste

Blerina Suta: «l’albanologia vanta in Italia uno status accademico molto importante»

"Albania-Italia: andata e ritorno". Ciclo di sei incontri sulla letteratura migrante albanese organizzato presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale. Per saperne di più, abbiamo intervistato Blerina Suta, docente di filologia, lingua e letteratura albanese

di Stefania Morreale
02 Maggio 2019
in Interviste
Unior Albanologia Blerina Suta
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Di seguito proponiamo l’intervista alla professoressa Blerina Suta, docente di filologia, lingua e letteratura albanese presso l’Università degli Studi di Napoli l’Orientale.

La professoressa Suta, insieme alla professoressa Anna De Meo, è impegnata nell’organizzazione di un seminario sulla ‘letteratura migrante’ albanese e, gentilmente, ci ha concesso di rispondere a qualche domanda sul tema.

Blerina Suta UNIOR docente albanese
Blerina Suta, docente di filologia, lingua e letteratura albanese presso l’Università degli Studi di Napoli l’Orientale.

Intervista alla professoressa Blerina Suta

I corsi di studio della lingua e della cultura albanese presso l’Orientale di Napoli da quanto tempo sono attivi? Si tratta di corsi molto frequentati?

Bisogna premettere che i corsi di albanese, come i corsi di tante altre lingue dell’Europa sud-orientale, hanno subito un generale ridimensionamento a causa dei cambiamenti geopolitici avvenuti dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda.

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Ciò detto, l’albanologia vanta in Italia uno status accademico molto stabile e importante. Di più: grazie agli sforzi degli arbëresh della prima migrazione, l’Italia è il paese in cui l’albanologia ha visto per la prima volta riconosciuto il suo status accademico. Nell’ottobre del 1900, il Ministero dell’Istruzione ne decretò l’istituzione e nello stesso Anno Accademico (1900-1901) comincia nel Regio Istituto Orientale di Napoli, l’insegnamento della lingua albanese.

In riferimento al seminario organizzato da Lei e dalla Prof. De Meo: come è nata l’idea? Si tratta di una prima sperimentazione?

Il taglio sovranazionale della formazione degli studenti del Dipartimento degli Studi Letterari, Linguistici e Comparati è costantemente sostenuto da attività che si affiancano alla didattica, tra cui incontri seminariali con professori di varie discipline e lingue e con personalità internazionali. L’insegnamento dell’albanese, che ho in affidamento da qualche anno, è naturalmente coinvolto anche in queste attività. La Prof. Anna De Meo è impegnata in prima persona, con il Centro Linguistico dell’Ateneo, a promuovere attività di formazione rivolte a stranieri, immigrati, rifugiati, che hanno prodotto ricerche e pubblicazioni in tal senso.

L’anno scorso, la lingua e cultura albanese sono state rappresentate in un ciclo di incontri sul tema della traduzione, organizzato dal Prof. Augusto Guarino, e sono state proposte agli studenti dell’Orientale anche sotto forma di “Rassegna del cinema albanese”, organizzata dal Prof. Alberto Manco. Anche osservare da vicino il laboratorio della scrittura bilingue è un’esperienza molto importante in sede didattica: ciò giustifica l’impegno della cattedra ad ospitare incontri tra gli studenti e autori albanesi che scrivono in italiano e in albanese.

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Sono tutte occasioni, ritengo, che contribuiscono a costruire un punto di vista, su paesi come l’Albania, diverso – o addirittura opposto – rispetto a certe logiche che spesso orientano l’approccio a culture considerate piccole, minoritarie, periferiche.

Quanto la che lega l’Albania all’Italia ha influito e continua ad influire sulla lingua e sulla cultura albanese? E quanto sulla cultura italiana?

La lingua e la cultura albanesi hanno un rapporto non solo naturale ma positivo con la migrazione.

In particolare la lingua albanese, sin dalla sua nascita, ha legato la propria sopravvivenza alla migrazione, come antidoto al rischio di dissipazione indotto dalle condizioni drammatiche che la madrepatria è stata obbligata a subire. Nel periodo dell’occupazione ottomana, la prima opera albanese originale è un’opera bilingue, scritta cioè in albanese e in italiano, di carattere teologico e filosofico: il “Cuneus Prophetarum” di Pietro Bogdani (1685). Durante il Risorgimento, la prima opera artistica in lingua albanese è stata prodotta dall’antica migrazione arbëresh: proprio a Napoli, nel 1836, Girolamo De Rada dà alle stampe i suoi “Canti di Milosao”, anch’essi scritti in albanese e in italiano.

Nella cultura albanese, insomma, “l’esilio della parola” ha significato la ‘salvezza’ della parola: Camaj, il maggior poeta del secondo ’900 albanese, che è stato obbligato all’esilio durante il regime totalitario, ha vissuto la condizione di migrante come una sofferenza, ma anche come un’occasione di straordinario arricchimento. La circolazione ed il passaggio da un sistema culturale all’altro ha allargato le capacita espressive dell’albanese. E, anche oggi, i migranti moderni continuano a dare all’albanese possibilità nuove per costruire mondi artistici, custodi di verità storiche.

Quando si parla di ‘letteratura migrante’ cosa si intende?

In Italia, il termine ‘letteratura migrante’ significa letteratura prodotta da autori che si sono trasferiti dal loro paese d’origine e scrivono qui. Dalle ondate migratorie degli anni ’90 fino ad oggi, il termine è andato man mano adattandosi alle nuove realtà della “seconda generazione”, o “nuova generazione”, fino ad essere sostituito dal termine “letteratura della diaspora”.

Rispetto alla letteratura migrante albanese, in prosa o in poesia, in italiano, in bilingue (albanese e italiano) o solo in albanese, tutti questi termini sono puramente convenzionali e non perfettamente calzanti rispetto alla realtà che intendono nominare.

Gli scrittori albanesi della “nuova generazione”, che hanno scelto di scrivere in italiano, si sentono a tutti gli effetti scrittori italiani, anche se sono coscienti che la diversità della memoria culturale e linguistica è fonte di soluzioni sorprendenti, stranianti per il sistema di arrivo.

Per gli scrittori che scrivono in bilingue, invece, l’accezione del termine ‘letteratura migrante’ è dettata non solo dall’osmotico rapporto tra la lingua di partenza e quella di arrivo, ma anche dalla partecipazione o meno dell’autore, in sede di poetica ideologica, al dibattito sull’eurocentrismo e sulla prassi ‘decolonizzante’ in contesto italiano. Alcuni autori, come Gëzim Hajdari, hanno fatto della ‘migranza’ o dell’‘erranza’ la base per rivendicare una condizione di libertà dall’eurocentrismo e dai canoni letterari che in entrambe le realtà (quella albanese e quella italiana) originano ortodossie.

Anche il termine “diaspora”, se applicato agli scrittori albanesi che scrivono fuori dall’Albania, è riduttivo, perché non rende giustizia alla coesione e all’unità cui è votata la ricerca espressiva della lingua letteraria albanese, che proprio gli scrittori ‘migranti’ hanno contribuito a creare.

Qual è il peso che la letteratura migrante albanese ha all’interno del panorama letterario italiano?

Userò la parola ‘peso’ in accezione qualitativa. Da un punto vista quantitativo, mi limito a rilevare che il numero degli autori albanesi che scrivono in Italia è in costante aumento. Alcuni autori albanesi che scrivono in italiano hanno ricevuto importanti riconoscimenti: penso a Ismete Selmanaj Leba, cui è stato attribuito il Premio Assoluto Holmes Awards 2019 per il romanzo I bambini non hanno mai colpe.

Pur riconoscendo l’interesse ampio che suscitano gli autori di origine albanese che scrivono in italiano (il cui elenco cresce ogni giorno di più), oppure gli autori che continuano a scrivere in albanese (come Jozef Radi), gli autori a cui va l’interesse oggettivo dell’albanologia, sono soprattutto gli autori bilingue (come l’arbëresh Giuseppe Schiro di Maggio di Piana degli Albanesi, Gëzim Hajdari e Arben Dedja)

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