Buongiorno Anilda, ti trovi qui a Tirana nei giorni del Summit della Diaspora Albanese. Come pensi sia andato?
Questo viaggio a Tirana per me era molto importante, riguardava me stessa e toccava una sfera molto intima di me. Volevo vedere questa Diaspora riunita, persone arrivate da tanti paesi del mondo.
Volevo capire cosa ne è stato di tutti coloro che come me hanno lasciato il paese da giovani. Come sono andati avanti dopo un trauma come l’emigrazione e cosa significhi per loro questo ritorno. Per me è stato chiudere un cerchio, una forma di addio ad ogni coinvolgimento e legame con il paese, continuando ad essere albanese in un altro modo, trasferire la mia albanesità o ciò che ne rimane solo ed esclusivamente nella mia letteratura.
Questo summit forse non era il mio posto, ma come ho detto avevo bisogno di concludere una parte importante della mia esistenza.
Sono intervenuta da relatrice in punta di piedi, volevo richiamare l’attenzione sul fatto che per far sopravvivere la cultura albanese al mondo urge la creazione di strutture come Istituti Albanesi di Cultura.
Non credo l’abbia sentito o capito nessuno, la politica è concentrata sulle sue faide, gli emigranti invece “nei loro calderoni” come li ha chiamati il nostro Premier. Calderoni di associazioni locali frazionati, nei quali lo scopo principale non è nemmeno fare comunità o creare una lobby, ma emergere individualmente.
Ho visto situazioni tragicomiche, un ministro della Diaspora girare a vuoto senza capire quale sia realmente il suo ruolo e probabilmente nemmeno ha uno, perché ho la netta sensazione che per un gioco politico sia stato parcheggiato temporaneamente in questo Ministero, senza alcuna funzione. Appoggio Liza Gashi della Germin, è stata una meravigliosa scoperta e come dice lei bisogna riunire le diaspore da soli, senza lo stato, perché questa è una cosa che riguarda solo le diaspore.
Per quanto riguarda la comunità albanese in Italia sono animata da sentimenti pessimistici sul futuro prossimo, la cui contraddizione sta nell’incredibile contrapposizione tra quello che sarebbe un forte spirito di identità culturale e un altrettanto forte spirito divisivo sul piano politico e sociale, che ha impedito e impedirà sempre – almeno finché quel lascito non sarà evaporato – un reale gioco di squadra sui problemi in patria e all’estero, oltre che – sotto il profilo culturale – una reale comprensione e metabolizzazione del passato recente.
Al summit della diaspora si è parlato soprattutto il tema del voto. Qual è la tua opinione?
Lo so che risulterò impopolare e dividerò i vostri lettori ma alla fine mi ci sono abituata, non è cosi male. Penso che il voto di coloro che sono stabilmente residenti all’estero falsi le elezioni perché è basato su una asimmetria informativa grave. Semplificando: gli albanesi all’estero non hanno contezza dell’esatta situazione della patria ma solo per sentito dire.
Non vivendo una quotidianità quindi non subendo i problemi reali del paese è impossibile farsi un’idea leggendo solo l’informazione online. Diventa cosi un voto meramente ideologico le cui conseguenze le scontano solo coloro che vivono nel paese. Personalmente non voterei, per onestà intellettuale verso il popolo albanese.
Scrivi solo in italiano, pubblicata da una casa editrice come Einaudi, tanti premi e cito solo l’ultimo che è Rapallo, diritti opzionati per il cinema, tradotta in 10 paesi. C’è solo un però, non hai mai accettato di essere pubblicata in albanese. Per quale motivo?
Giovanni Sartori, grande politologo scomparso in tempi recenti a chi gli chiedeva perché pubblicasse i suoi libri solo in inglese soleva ripetere: “tradurre in italiano è impresa superiore alle mie forze”. Anche per me pubblicare in albanese è impresa superiore alle mie forze. Più che altro mi chiedo: avrebbe un senso?
Ha un senso mi chiedo – scrivere per un pubblico che strutturalmente assimila ogni narrazione e riflessione spassionata sul passato alla mera idolatria del comunismo, che assimila l’avversario (politico, di fazione, di famiglia) ad un nemico da abbattere, che ha perduto ogni capacità critica e riflessiva su se stesso e su chi – e cosa – gli sta intorno?
E laddove non ci si schiera apertamente e acriticamente con la propria fazione si è automaticamente servi e scherani della fazione opposta, che merita di essere annientata? In politica, in economia, nella cultura?
Dico questo perché quando, nei miei libri, vado a riflettere sull’esperienza del recente passato comunista senza tirare fuori la solita trita litania ma cercando di raccontare e capire cosa sia successo davvero in quegli anni, cosa altro sia successo, vengo immediatamente ed inequivocabilmente etichettata come “la scrittrice rossa”?
Quando vedo e constato (anche nel linguaggio) la mentalità terribile che il comunismo stesso ha lasciato addosso alla comunità albanese, ossia quello spirito di faziosità irrazionale, acritica ed integralista che ho appena descritto, e che era connaturata al passato regime, allora mi sento – davvero – di essere la più grande anticomunista.
Per il momento mettiamola così, mi limito a pubblicare in italiano e in altre lingue dove la gente legge per il piacere di leggere. E poi diciamolo, gli albanesi odierni sono concentrati sul benessere e quel poco tempo libero che rimane lo passano sui social a fare i tuttologi, quindi è un finto problema che viene nominato solo per dipingermi come snob. D’altronde nel panorama letterario italiana , sono sufficientemente “la Ibrahimi” quindi va bene cosi.
Che aria si respirava a Tirana dopo gli ultimi avvenimenti?
Tirana era tranquilla, bella, vivibile. Ma io parlo da turista. E poi l’Albania non è solo Tirana ma soprattutto le zone rurali. Non ho mai negato i problemi reali dell’Albania, gli scontri politici tra i due partiti principali Pd e Ps, occupano la scena da quasi 30 anni. La corruzione esiste, una piaga che divora dal postcomunismo ad oggi. Il 16 febbraio l’unico mio pensiero è stato il settore del turismo che ne avrebbe risentito dopo le immagini degli scontri violenti davanti alla presidenza del Consiglio.
Penso che è mancata in Albania quella fase di graduale presa di coscienza dei propri diritti e la pratica sindacale e associativa, e i lavoratori – non sanno come portare avanti i loro diritti e le loro rivendicazioni, quindi le uniche modalità di azione che concepiscono sono l’emigrazione oppure l’aperta ribellione a volte anche violenta contro il governo di turno. Rovesciare il governo soprattutto quando non si hanno altre alternative è la cosa più sbagliata che si possa fare.
Quali sono le sue sfide per il futuro?
Ho una solo sfida, scrivere, scrivere e scrivere. Anzi questo viaggio mi ha aiutato tanto per ultimare il mio nuovo romanzo. Un romanzo dove porto sempre l’Albania dentro. In tante interviste in questi giorni mi é stato chiesto perché pur non accettando di essere tradotta parlo sempre dell’Albania.
La patria non ha il copyright, finché non avrò finito le storie scriverò di lei.
Per la prima volta ambiento una storia in Italia.
Racconto i destini di tre albanesi che inconsapevolmente si incrociano in Italia. Una storia sull’educazione sentimentale che a noi donne che abbiamo vissuto un’adolescenza nel comunismo ci è proprio mancata. Sembra una storia tra due amanti ma non lo è.
E’ una storia sull’integrazione ma soprattutto sulla sua mancanza, il dramma comune di tante donne albanesi che vivono un’apparente integrazione quando in verità la loro vita è in funzione del marito. Rimaste senza punti di riferimento socio/familiari dopo aver lasciato la patria spesso non sono mai riuscite a creare nuovi legami. Riproducono il modello della vita in Albania, ma in Italia non funziona sempre.
Come sempre un romanzo al femminile, due donne protagoniste, moglie e amante e la figura maschile che rimane una comparsata senza spessore. Un romanzo insolito per me ma che mi permette di raccontare l’integrazione in tutte le sue sfaccettature.