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ll triangolo culinario arbëreshë e la simbologia del cugliaccio

di Anna Maria Ragno
05 Dicembre 2011
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cugliaccio arbereshe
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Il cugliaccio (in arbërisht Kulac) è un dolce tipico della tradizione gastronomica arbëreshè di San Costantino Albanese. Sin dal XVI secolo, la preparazione di questo pane è legata alle cerimonie nuziali e alle festività pasquali, ed è connotata da un forte simbolismo religioso, che agisce sulla costruzione e sul mantenimento dell’etnicità arbëreshè.

Preparazione del Cugliaccio

Ricco di uova, viene preparato con ingredienti semplici (farina di grano tenero, semola rimacinata, olio, strutto, lievito naturale, lievito di birra e finocchietto selvatico), per esaltare la vita e la Resurrezione, richiamando la distribuzione tradizionale delle uova sode colorate, durante la domenica di Pasqua. Nel Medioevo, infatti, era vietato mangiare le uova, cibo di origine animale, durante le severissime imposizioni di digiuno della Quaresima. Le uova sfornate dalle galline in quelle sei settimane, dovevano per forza essere smaltite rapidamente, perciò venivano benedette in chiesa durante la messa della domenica di Pasqua e poi donate, rassodate, ad amici e parenti, come augurio di fecondità.

In occasione delle feste nuziali, il Kulac viene preparato e confezionato dai parenti dello sposo, il giovedì prima del matrimonio, che a San Costantino Albanese, viene officiato con il Rito greco-bizantino. In questo caso ha un impasto circolare, con un intreccio che forma quattro braccia, che vuole rappresentare l’indissolubilità del matrimonio.

image2

La sua superficie è decorata con simboli in pasta: un nido, due uccelli e due serpenti. Il nido, al centro del dolce, rappresenta la nuova famiglia e la sua casa. Le uova, in esso contenute, sono sempre dispari, in segno di buon augurio e fertilità. Gli uccelli inizialmente rappresentano i suoceri; i serpenti, invece, raffigurano gli sposi, che guardano dispiaciuti i genitori lasciati. In un secondo momento, gli uccelli si trasformano nella nuova coppia e i serpenti rappresentano il male.

Infornata Cugliaccio
Composizione finale del cugliaccio matrimoniale

Secondo la tradizione, per ogni cerimonia si devono preparare due “cugliaccio”, uno decorato e l’altro semplice. Quello semplice veniva messo sotto l’altro, poiché durante la messa, quello decorato veniva offerto dal sacerdote, dopo essere stato bagnato nel vino, e dato prima alla sposa e poi allo sposo, in segno di reciproca appartenenza.

L’intreccio simbolico del cugliaccio

Quella del kulac, come vediamo, non è semplicemente una ricetta culinaria, ma una rappresentazione e raffigurazione del mondo arbéreshè, che racconta una storia e segna un cambiamento. Questo rito di passaggio riguarda il mutamento che, con la celebrazione del matrimoniale, avverrà all’interno della piccola comunità, della gjitonia, delle famiglie coinvolte, e soprattutto della vita degli sposi. Rappresentazione iconica e visuale del rito matrimoniale che si sta consumando; del passaggio dei due giovani al nuovo status sociale; della contrapposizione ed alleanza delle due famiglie; dell’indennizzo pagato dalla famiglia dello sposo, attraverso l’offerta del dono risarcitorio alla famiglia della sposa. Molto probabilmente, infatti, gli sposi seguiranno la norma virilocale e andranno a risiedere presso i parenti di lui.

Ma soprattutto il cugliaccio è la rappresentazione del mutamento all’interno della vita dei due giovani, raffigurati all’inizio come “serpenti che guardano dispiaciuti gli uccelli, cioè i genitori lasciati”… In seguito, i due giovani, dischiuse le uova e usciti da nido, diventano essi stessi “uccelli” capaci di fronteggiare i serpenti, cioè il male, che l’ingerenza dei parenti, all’interno del proprio menage familiare, può rappresentare.

Cugliaccio
Icona bizantina della Chiesa dei Santi Costantino ed Elena di San Costantino Albanese

Raffigurazione, dicevamo, anche dello spazio fisico, chiuso e circolare del paese, giacchè ogni paese arbéreshè viene costruito intorno alla piazza dedicata al suo eroe fondatore, Giorgio Castriota Skanderbeg, da cui poi partono le vie principali, in genere disposte secondo i quattro punti cardinali.

Raffigurazione spaziale della gjitonia, della divisione del paese in corti di vicinato. Ogni anno, per superare le tensioni latenti, i vari gruppi sociali e le gjitone si uniscono e si dividono, fronteggiandosi e sfidandosi nella rituale Carrese. All’interno della gjitonia, ogni valore viene rammemorato e condiviso, ogni comportamento sanzionato, sottoposto all’approvazione di tutti o criticato: primo fra tutti il rispetto della regola endogamica, cioè del matrimonio preferenziale con un Arbéreshè del proprio villaggio (endogamia di villaggio) o, in mancanza di questo, della minoranza arbéreshè meridionale (endogamia etnica).

Anche il matrimonio celebrato con il Rito greco bizantino, sancisce la chiusura etnica rispetto ai Latini, l’affermazione del proprio orgoglio etnico, ed il rispetto della regola endogamica. In alcuni paesi la celebrazione avviene ancora nell’idioma arberisht. Durante l’incoronazione degli sposi (cioè il matrimonio), il kulac diventa cibo-eucarestia, offerto dai parenti dello sposo, per santificare l’unione dei due sposi di fronte a tutta la comunità, in sostituzione del pane e del vino.

Video

Infatti per l’eucaristia il Rito greco bizantino non usa pane azimo, cioè senza lievito, come le ostie e le particole della tradizione latina, bensì il pane lievitato. Il pane usato per la celebrazione (detto in greco pròsphora, cioè “offerta”), in genere, viene predisposto poco prima della celebrazione eucaristica vera e propria, durante il rito della Pròthesis, cioè “Preparazione”, secondo un altro complesso simbolismo. La comunione si fa abitualmente sotto le due specie eucaristiche, il pane e il vino: l’ostia, si sa, è una “invenzione” della Chiesa Latina (introdotta da Onorio III nel 1220 e confermata dal Concilio di Trento nel 1551), e una maniera per affermare il suo giuridismo.

Ma senza dilungarci troppo in questioni di ordine religioso, quello che qui si vuole affermare è che la gastronomia non rappresenta semplicemente una delle espressione del folklore e del colore locale, perché il cibo, non è un fatto legato solo al bisogno fisiologico del nutrimento o alla sfera del “gusto e del piacere soggettivo”: esso segna il passaggio di ogni società dalla natura alla cultura. Infatti la cottura rappresenta simbolicamente una sottomissione della natura alla cultura, in quanto una volta preparato, il cibo perde la sua naturalità e assume significati e sapori diversi a seconda della cultura.

Il cibo è soprattutto un linguaggio, che rivela le strutture più profonde di ogni società. Come scrive Claude Fischler: “Ogni cultura possiede una cucina specifica che implica delle classificazioni, delle tassonomie particolari e un complesso di regole fondato non solo sulla preparazione e sulla combinazione degli alimenti, ma anche sulla loro raccolta e sul loro consumo. Possiede anche dei significati, che sono strettamente dipendenti dal modo in cui le regole culinarie vengono applicate.”

Come ha osservato l’antropologa Mary Douglas, il cibo è anche un importante medium, in quanto rappresenta un mezzo di comunicazione, attraverso il quale l’individuo esprime se stesso e allo stesso tempo si differenzia dagli altri, ovvero da coloro i quali non hanno le stesse abitudini alimentari. La preparazione del cibo fa parte di quelle pratiche del sé, che ci aiutano a tracciare delle barriere simboliche fra noi e l’Altro. In questo modo ci aiutano a
capire meglio i significati del sé. Così, come ci hanno mostrato le diverse civiltà, la condivisione dello stesso cibo introduce le persone nella stessa comunità e le rende membri di un’unica cultura. Ma così come crea delle appartenenze, allo stesso modo il cibo sottolinea le differenze e serve a separare “noi” dagli “altri”.

Ma, soprattutto, il cibo è un meccanismo rivelatore dell’identità etnica, culturale, sociale. E’ espressione dell’identità religiosa, per cui l’assunzione di alcuni cibi va oltre la loro materialità: per esempio il pane e il vino per la tradizione cristiana. E’ espressione della solidarietà e della condivisione familiare e dell’amicizia tra gruppi. Un esempio è rappresentato dai banchetti in occasione di matrimoni e nascite. Riunire intorno alla stessa tavola le varie generazioni parentali trae origine da una concezione sacrale del pasto, che riconosce al mangiare, precisi valori religiosi, morali e sociali.

Il triangolo culinario arbëreshë.

In tal senso è possibile affermare, con l’antropologa strutturalista Mary Douglas, che «l’uomo è (essenzialmente) un animale culinario» e che la gastronomia arbéreshè – in quanto “bene”- è parte materiale ed immateriale della cultura arbéreshè; espressione visibile ed invisibile, tangibile ed intangibile dei saperi dell’Arberia (in latino “sapere” e “sapore” hanno la stessa radice etimologica); hardware e software, per così dire di un sistema di informazione e di un “linguaggio” che dobbiamo ancora imparare a leggere e a decodificare.

Ma quale è, dunque, la struttura che soggiace alla cucina arbéreshè, cioè alle abitudini e al consumo alimentare da parte degli Arbéreshè? Quali significati sociali, economici, storici, psicologici rivela tale struttura?

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Secondo l’antropologo Claude Lévi-Strauss, l’opposizione fondamentale, che precede e caratterizza tutte le altre relazioni alimentari, riguarda lo “stato” dell’alimento e si rappresenta per mezzo del cosiddetto “triangolo culinario”. A ogni vertice del triangolo si colloca uno dei tre “stati”: “il crudo”, che rappresenta l’originaria condizione di non trasformazione del cibo; “il cotto”, in quanto trasformazione culturale del crudo; “il putrido” come naturale alterazione sia del crudo che del cotto.

All’interno di questo Triangolo culinario, è possibile collocare dalla parte del Cotto, cibi come: la “dromesat”, una pasta fatta con grumi di farina, cucinati direttamente nei diversi sughi scelti per il condimento; le “shtridhelat”, tagliatelle di farina mista, cucinate con fagioli o con ceci; i “rrashkatjele Skanderberg” (rascatelli Scanderberg), conditi con salsa si pomodoro e ricotta stagionata.

Dalla parte del Crudo la “veze petul”ovvero i cardi selvatici con scarola e cime di capperi.

Dalla parte del Putrido, non perchè lo sia, ma –come già detto- in quanto “trasformazione naturale del crudo”, la “kandarate”, carne conservata sotto sale, la saucice, la supersat,, il kapekol, le frittula.

Fanno parte del cibo della festa le “petullat” o “krispelet” (soffici frittelle a forma di ciambella); le “kasolle megjize” (gustoso involtino farcito con la ricotta); i “kanarikuj” (grossi gnocchi impregnati di miele); la “nusëza”, un dolce che assume sembianze antropomorfe. Anche la nusëza è una rappresentazione del sé arbéreshè: cibo che segna l’identità.


Bibliografia

  • Douglas M., Antropologia e simbolismo, Il Mulino, 1985
  • Fischler C., L’onnivoro. Il piacere di mangiare nella storia e nella scienza, Mondadori, 1990
  • Lévi-Strauss C., Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano, 1964
  • Scholliers P., Food, Drink and Identity: Cooking, Berg Publishers, 2001
Argomenti: Tradizioni Arbëreshe
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