Pochi giorni fa, ad Asti e Torino, con promotori dell’iniziativa Centro Culturale per gli albanesi a Torino e Fondazione Giovanni Goria ad Asti, è stato presentato il film documentario “L’Attesa” (Pritja).
Autore e regista del film documentario è il regista albanese Roland Sejko, autore anche dei film “Albania, il paese di fronte ” e “Anija – La nave “, vincitore del David di Donatello 2013.
Il film anche se tratta un tema che il regista commenta tutto in albanese, si presenta come unico film italiano a Film Fest di Taormina 2016.
Il film è stato prodotto dall’Istituto Luce- Cinecittà in collaborazione con Digitalb, ed è distribuito da Luce- Cinecittà.
Lo spunto per realizzare il film, viene preso dal libro di un frate cattolico che si chiama At Zef Pllumi , vittima del regime di Hoxha, “Vivi solo per testimoniare”, e di un’altra storia che va in parallelo, con la storia della cattedrale di Scutari.
Attraverso la Cattedrale, l’autore racconta la tradizione di una città con la credenza religiosa cristiana e che vene trasformata nel periodo del comunismo in un palazzo dello sport e palazzo dei congressi.
Racconta anche le sofferenze di tutto il clero religioso che fu massacrato dal sistema. Le due storie sono protagoniste di uno sfondo storico molto più ampio, di uno sfondo culturale dell’Albania quando venne trasformata dal regime totalitario in un paese ateo. Le storie sono ancora lo sfondo di una alternanza tra il passato e il presente nell’attesa del primo viaggio come pontefice, del Papa Francesco in Albania nel 2014.
Il film “Attesa” è stato realizzato in breve tempo.
Sejko racconta della sua collaborazione con Luca Onorati, come succedeva anche nella realizzazione del film “Anija” (La nave), durante il montaggio del film, non conosceva nessuna parola in albanese. Una scelta che Sejko la racconta come una strategia usata per dare spazio alle immagini, ai suoni, ai silenzi, che hanno una grande importanza per costruire la linea conduttiva del film e di costruire le metafore in Albania che non erano così dirette.
Per esempio il mosaico del Museo Nazionale di Tirana che si vede nel film coperto da un velo, rappresenta metaforicamente l’uomo nuovo, la vergogna di un popolo, perché l’Albania non ha fatto ancora i conti con il passato comunista e la presenza di quel mosaico, di quei uomini raffigurati da combattenti, dopo guerra, si è presentata nella politica metaforicamente parlando.
Il film viene raccontato dalla voce del padre Zef Pllumi e il suo testo viene portato nel film in due momenti importanti, voluti appositamente dal regista:
Com’è possibile che un popolo così piccolo possa avere cosi tanti farabutti?
In Albania questo veniva detto a voce bassa e invece, Padre Pllumi lo dice ad alta voce con coraggio per metterlo in evidenza. La seconda, che viene come una domanda retorica, sono le ultime parole del film:
È solo un dittatore che ha fatto tutto questo? Si può chiamare un popolo?
È un invito per un popolo intero che ha seguito una ideologia, distruggendo tutta quella tradizione che all’inizio del film viene presentata dalla normalità di andare in chiesa, fare le proprie professioni o altro.
Certamente, era un paese arretrato all’epoca, ma non era preparato allo shock culturale di un tipo come questo, come la scossa enorme che gli ha infierito il comunismo.