Assistere a Albania casa mia, lo spettacolo di Aleksandros Memetaj è commovente per un albanese, e spunto di riflessione per un italiano, ma, a tratti, un misto di rabbia e di gioia accomuna entrambi.
È un ritorno al passato albanese ed è un ritorno al passato di quella Italia dei primi anni ’90, ma, soprattutto, è, purtroppo, un ritorno al presente che inonda la platea con la sua verità: gli italiani sembrano non essere cambiati, mentre gli albanesi non sono più “albanesi”.
È italiano Memetaj, italiano per l’accento veneto; è italiano per i documenti e perché vive a Roma, ma la sua casa è rimasta l’Albania. “Albania casa mia” perché è quella la frase che l’autore sentiva ovunque nel Veneto degli anni Novanta, quelli della sua infanzia; perché è lì, a Valona, che, dopo il viaggio impregnato di sudore, quasi un esodo migratorio al contrario raccontato magistralmente sul palco, in quel traghetto salpato da Brindisi che lo riporta dopo anni nella città natia, il bambino si sente davvero a casa.
È casa quando il suo “essere” inizia e finisce solo con il proprio nome, e comincia a capire che solo lì si è in modo naturale, non c’è più «l’albanese», non c’è soprattutto l’albanese aggettivato «di merda».
È lì, fra quegli individui imbruttiti dalla fame e dalla sofferenza, figli di un comunismo dal volto disumano, che scopre la sua identità e un se stesso corrispondente al suo nome anagrafico; è a Valona che sente di essere come tutti gli altri e da nessuno giudicato.
E lo fa con un inno meraviglioso a questa città-madre, forse l’unica in Albania che permette ancora di provare dell’amore senza l’arroganza del finto cambiamento e senza quella sbrigativa e triste “invenzione delle tradizioni” imperante altrove.
Essa sembra ancora capace di donare un senso di appartenenza senza alcun mito nazionalista, e soprattutto coinvolge ancora con quella sua malinconia romantica lontana dagli echi del consumo omologante.
È la città che riaccoglie i figli, come ha sempre fatto in tutta la sua storia, e protegge, con la sua forma sinuosa e l’isola di fronte simile ad un seno materno. È una città, che sta là, in mezzo, fra l’Occidente e l’Albania Balcanica, ma mai foriera di mezze misure, mai media, dove solo nel vederla «ribolle il sangue dentro» (parole di Memetaj). E il bambino protagonista è un po’ così, lì nel mezzo: è da lì che osserva i due mondi e con parole rubate ad entrambi, li racconta.
E il ragazzo ci sa fare. I testi sono pieni di verità, una verità senza odio, una verità da bambini che egli si porta dentro (e che, forse, ci portiamo dentro tutti), fino a che arriva l’attitudine alla riflessione e la verità diventa “politica”.
È allora inizia il giudizio, allora si tracciano le linee e si riempiono le caselle. E si tenta con la via più difficile, quelle di uccidere uno stereotipo con un altro stereotipo. Il veneto e il valonese, resi magnificamente, attraverso i minimi dettagli della pronuncia e i loro cliché del quotidiano e di carattere, nelle loro differenze che portano a ridere di gusto, ma che non è detto siano poi così distanti.
Il veneto lavoratore e si ammazza di ombre in osteria, luogo e modo di socializzare, ma anche razzista e chiuso, l’altro, il valonese, giocatore di scacchi nei bar, fumatore e ugualmente bevitore di grappa. Il veneto che dopo ogni «albanesi di merda», nomina “un albanese amico e che gli ha fatto la casa” o un altro a cui ha insegnato a fare la pizza. Ed è lì che è iniziato il percorso di vita dell’albanese similveneto, dagli esordi con quel “son bon a fare la pissa” perché “non c’è nulla che un valonese non possa fare bene”.
Ma è altro soprattutto che li accomuna, quel che paradossalmente all’inizio li divise: il percorso di vita, il cogliere la speranza, il conquistarsi un futuro, l’amore di un padre per il figlio, un padre laureato che si sacrifica e diventa pizzaiolo.
Non è (solo) una storia di emigrazione: è soprattutto una storia di vita. È la storia delle nuove vite di una Italia nuova. È la prospettiva di chi sta in mezzo e riesce a vedere e comprendere due mondi che si tangono per dare vita a qualcosa di nuovo e proiettato nella dimensione del futuro.
È forse da lì (o qui) che verranno le nuove parole inventate da bambini dei due mondi, che diventeranno i pensieri degli adulti. È un passato che è passato troppo in fretta senza che la speranza rimanesse gravida di un presente: “Non si sa mai, che anche in Italia, succeda come da noi, che non si sia speranza per i giovani, per i laureati”, e così, il padre albanese, dice al figlio, “impara a fare la pizza, ragazzo, non si sa mai”.
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