Rispondendo alla domanda sulla tematica di questa edizione: “Come vivremo insieme?”, posta dal curatore Hashim Sarkis, gli architetti e gli artisti albanesi non hanno esitato a portare una linea di progetti che ha come fulcro un noto elemento etnoculturale albanese, quale i rapporti di buon vicinato, “fqinjësia“.
Diversamente detto “Gjitonia“, questa è stata un’usanza ancestrale albanese, tramandata anche dagli arbëresh, albanesi insediati in Italia 500 anni fa, dopo la morte dell’Eroe Nazionale albanese, Scanderbeg.
“Gjitonet që rrijen te praku i derës” – “Le vicine che stanno sulla soglia della casa”, anche nella cultura e nell’arte degli arbëresh, costituisce un filone sempre presente.
In Albania ci si intratteneva molto tra vicini, con un senso accentuato di solidarietà e presenza concreta nelle vicissitudini reciproche degli abitanti di un condominio o di un quartiere, questo almeno fino alla fine degli anni ’90 e l’inizio della transizione, dovuta al cambio dei sistemi politici, i quali andavano in parallelo anche con i rapporti sociali della popolazione.
In quei tempi, solitamente si bussava alla casa del vicino per chiedere un uovo, del sale, dello zucchero, dell’olio, magari dell’olio come quantità, quello pari ad una tazzina da caffè oppure di un bicchierino di raki, tanto era il prestito, perché la gente non ne possedeva per sé di viveri talmente così in abbondanza.
Si chiedeva dal vicino anche una tazzina da caffè come misurino, contente dello yogurt bianco, il sufficiente che serviva da fermento per fare lo yogurt in casa, quando non esistevano le yogurtiere, ma si faceva tutto alla vecchia maniera, bollendo il latte ecc …
Il tutto, a seconda delle regole non scritte naturalmente, ma risapute: solo ed esclusivamente in prestito! Nulla di regalato. Appena si entrava in possesso di quei viveri chiesti in prestito, nonostante in dosi minime, si portavano indietro dai vicini. A queste regole nessuno trasgrediva. La disciplina ferrea dittatoriale, forse anche nei rapporti, in questi piccoli gesti, si rispecchiava alla fine.
In un’Albania che viveva una forte autarchia, i viveri venivano distribuiti in maniera programmata e misurata da ritirare con un apposito tesserino oppure coupon, in proporzione al componimento del nucleo familiare ed al numero delle persone per famiglia.
Ci si recava dal vicino di casa per guardare un film, cioè dall’unico che in condominio possedesse un televisore, ci si recava dal vicino per fare una telefonata, sempre dall’unico che possedesse un telefono in casa e così via, ci si recava dal vicino per portare un pezzo di carne o un pollo da conservare in frigo, accompagnato da un bigliettino con il proprio nome attaccato nel pacchettino, perché era l’unico nel condominio a possedere un frigorifero e tutti portavano qualcosa da porre nel suo frigo, come se fosse un frigo comune.
Insomma si interagiva, si collaborava e ci si intratteneva molto tra di noi, proprio perché in una fase per l’Albania come quella della dittatura e della cosiddetta parità sociale, c’era più affiatamento tra le persone.
Insomma, questa era un po’ anche la “legge condominiale”, parte integrante di quel meccanismo più complesso quale legge generale etica della condotta dei cittadini.
Ad ogni modo, tempo scorrendo ed io, pian piano crescendo, ho iniziato a pensare che quei palazzi condominiali in cui vivevamo a Tirana durante la dittatura, quelli tutti uguali dell’edilizia popolare della grande azienda “Stato”, uguali sia per l’aspetto architettonico ed edile esteriore, che per quello interiore inerente all’arredamento standard degli appartamenti, con mobili, kilim tradizionali dell’artigianato locale oppure con tende e centrini uguali, contenessero invece una molteplicità di vite vissute, le quali solo in apparenza, sembravano simili l’una all’altra, ma che invece possedevano grandi diversità nel proprio focolare.
Si acclamava una omologazione di stili di vita tra una famiglia e l’altra invece, solo con l’arrivo della democrazia, avremmo preso conoscenza della vera identità di un vicino o meglio: in un periodo di riserbo assoluto per la privacy altrui, in quanto approfondire sul personale di qualcuno più del dovuto avrebbe comportato gravi conseguenze sulla propria sorte, in silenzio ci si guardava in faccia e l’effetto che ne scaturiva era proprio il paradosso seguente: mentre da un lato c’era un grande senso di rapporti confidenziali di vicinato – i quali spesso, degradavano addirittura in invadenza a seconda del carattere e della cultura delle persone – dall’altro canto, c’era anche molta riservatezza e rispetto per la privacy di colui che non dava confidenza e che per scelta, rimaneva distaccato dal resto del condominio. Per quest’ultima categoria di persone, sebbene venisse considerata un po’ “la pecora nera” condominiale, per non dire “gli snob”, gli associali, alla fine c’era la consapevolezza – com’è giusto che sia quando l’invadenza no la fa più da padrona – “che avrebbe avuto senz’altro i suoi motivi per queste distanze con il resto dei vicini … ”
Quindi, questo padiglione albanese della Biennale di Venezia 2021, – che tra l’altro arriva dopo il fermo della pandemia – diventa una risposta concreta alla domanda posta dai suoi curatori: “Come vivremo insieme?”, che nel caso albanese non è da trattare in chiave meramente nostalgica sui rapporti sociali del passato della società albanese, ma come osservazione antropologica e culturale per distinguere quali valori del passato preservare e quali, ridimensionare nell’ottica odierna.