È uscito da qualche mese in Italia, in dvd,il documentario dal titolo: “Kanun, il sangue e l’onore” della regista Rebecca Basso. Dura una cinquantina di minuti ed è stato prodotto da Running TV International. Il film è arrivato secondo al Artelesia Festival con la motivazione: “perché, con efficacia, precisione tecnica e con opportuna sensibilità, l’opera riesce a coinvolgere lo spettatore nell’indagare le ragioni di una realtà complessa dai tratti drammatici”. Abbiamo chiesto direttamente alla regista di raccontarci qualcosa in più.Come sei venuta in contatto con l’Albania? Ci sei stata anche altre volte oppure solamente in occasione delle riprese?
Prima di realizzare questo documentario non ero mai stata in Albania. Simone Chieregato è un amico che fa il tour leader e, raccontandomi dei suoi viaggi nel mondo, mi ha parlato dell’Albania. Mi ha raccontato anche di aver conosciuto una persona che aveva un parente rinchiuso, proprio a causa della gjakmarrja. Ho iniziato così ad informarmi sull’argomento e sono entrata in contatto con il dott. Donato Martucci, docente di Antropologia culturale presso l’università del Salento che ha scritto articoli e pubblicazioni sul tema. Ispirandomi liberamente al suo lavoro “Kanun delle montagne albanesi. Fonti, fondamenti e mutazioni del diritto tradizionale” ho pensato di realizzare il documentario, intervistando alcune delle persone con cui lui aveva già avuto contatti.
Si chiama documentario, film o docufilm a proposito?
Documentario o docufilmIl Kanun intriga spesso giornalisti. Te come ne sei venuta a conoscenza e soprattutto quale è stata la spinta che ti ha fatto fare un documentario sul tema?
Quando ho scoperto le antiche origini del codice e che la gjakmarrja era solamente uno dei suoi aspetti, ho voluto entrare più in profondità nell’argomento, cercando di far emergere anche gli aspetti positivi, come la besa, la burrnja, in modo da spiegare con il processo causa-effetto come funziona il meccanismo delle vendette di sangue. Anche le modifiche moderne del codice, dal periodo della dittatura comunista ai giorni nostri, mi son sembrate cose degne di nota per raccontare l’evoluzione del diritto consuetudinario. Il documentario, perciò, è nato principalmente dalla curiosità sull’argomento, dalla voglia di capire come il Kanun è cambiato nel tempo e di indagare sul rapporto tra la legge del Kanun e quella dello stato.
Il film racconta del fenomeno partendo e proseguendo durante tutto il tempo da storie vere. É stato difficile penetrare in questi ambienti? Oltre ai racconti, avete consultato qualche studioso del tema?
Penso di aver già risposto alla domanda nei punti precedenti. L’unica cosa che tengo a sottolineare è la grande disponibilità da parte degli intervistati che ci hanno regalato il loro tempo e ci hanno accolto a casa loro senza riserve, raccontandoci le loro storie, i loro sentimenti, i dubbi, i desideri. E’ stata un’esperienza davvero intensa.
Giustamente fatte notare che “la vendetta” è una parte marginale del Kanun, mentre nell’opinione pubblica succede il contrario, anche a causa forse della visibilità che la vendetta ha. Mi ha colpito positivamente il racconto del maestro di Scutari mentre parlava delle problematiche scolastiche dei figli della famiglie “te ngujuara”. E poi a proseguire le altre storie di perdono a partire dalla voglia di far uscire i figli, i giovani da questo vortice. Hai visto segni diversi nei ragazzi a proposito?
Nel documentario la maggior parte degli intervistati non sono persone giovanissime, ho avuto modo di parlare con persone più giovani ma sinceramente non me la sento di dare un giudizio basandomi solo sui dati che ho raccolto. Parlando con alcuni volontari che operano a Scutari per sensibilizzare le persone sul tema delle vendette di sangue, però, ho appreso che nei giovani, parallelamente alla voglia di uscire da questa situazione, c’è anche una sorta di rassegnazione. Forse i ragazzi si sentono intrappolati in un meccanismo dal quale non riescono ad uscire, probabilmente perché non hanno esempi o perché non credono che la legge possa far giustizia né ripristinare quell’onore che è stato tolto. Lo stato, infatti, tutela di più chi commette l’omicidio di chi si vendica e, a mio avviso, questo condiziona l’agire e il pensare delle persone.
Che idea ti sei fatta del resto del paese?
Il soggiorno in Albania è stato davvero piacevole. L’ospitalità e la disponibilità delle persone squisite e l’accoglienza calorosa. Sicuramente l’Albania mi è sembrato un paese con tante contraddizioni. In alcune zone non arriva nemmeno l’elettricità, le infrastrutture non sono molto potenziate, i mezzi di trasporto sono quelli che sono, ma allo stesso tempo è una nazione proiettata al futuro e all’Europa con un forte slancio al cambiamento e alla modernità. Ho apprezzato molto anche la tolleranza religiosa, lo scambio culturale e il rispetto che c’è tra cristiani e musulmani. Ero in Albania durante il ramadan e il bajram ed è stato davvero molto bello sapere che i musulmani condividevano la loro festa con I loro amici cattolici. Son stata davvero molto felice di aver fatto questa esperienza, mi è dispiaciuto solamente di non aver avuto la possibilità di visitare anche il sud del paese.
Avete pensato alla diffusione del film in Albania?
Per non creare tensioni, ritorsioni o problemi alla famiglia ancora in sangue e alle persone che ci hanno fatto da intermediari, ho dato la mia besa che il documentario non uscirà in televisione a Scutari. Perciò per l’Albania resta valida solo l’opzione DVD, che è comunque legata ad una visione privata del documentario.
A proposito, una domanda tecnica. Non era meglio sottotitolarlo nella parte dei racconti?
La scelta è stata dettata dal fatto che il documentario usciva in Italia, paese che non ama molto i sottotitoli. Il tema inoltre è piuttosto complesso e ci sono anche molti racconti da seguire, perciò abbiamo optato per un over voice in italiano dei dialoghi in albanese.