Driant Zeneli è un artista albanese, nato a Scutari nel 1983, vive e lavora attualmente a Torino. La sua ricerca artistica è caratterizzata dall’ironia con cui osserva l’evoluzione della società e i meccanismi della natura umana.Zeneli ha partecipato durante questi anni a diverse mostre collettive e personali e ha vinto diversi premi come il Premio Internazionale Onufri a Tirana nel 2008 e nel 2009 il Premio Young European Artist Trieste Contemporanea. Nel 2011 ha rappresentato l’Albania al Padiglione albanese alla 54° Biennale di Venezia. È stato invitato a partecipare anche a mostre collettive come alla 5° Biennale di Praga nel 2011; Arte in Albania prima e dopo il 1999 al Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce a Genova nel 2009. Nel 2010 ha avuto luogo la sua personale presso la galleria prometeogallery di Ida Pisani a Milano dove ha presentato il lavoro This is a Castle! realizzato in Albania. A gennaio del 2012 parteciperà rappresentando l’Albania insieme anche ad Adrian Paci e Anri Sala alla mostra One Sixth of the Earth. Ecologies of Image al MUSAC Museo di Arte Contemporanea di Castiglia e León(Spagna), che presenta una panoramica sull’arte dell’ultima decade nei paesi dell’Ex unione Sovietica e del Blocco dell’Est.Hai vissuto in diverse città italiane, ora vivi a Torino, cosa pensi della scena artistica torinese anche da un punto di vista in rapporto non solo con il pubblico ma anche con gli addetti ai lavori?
Spostarsi, oggi, è una pratica comune per l’uomo. Spesso mi sembra di vivere su un ponte e questo mi dà in parte instabilità, però, nello stesso tempo mi dà la possibilità di osservare il fiume che scorre da lati opposti. Tuttavia, a questo proposito, mi viene in mente un’opera video realizzata nel 2008, che riflette sui concetti di mobilità, spostamento e luogo: This will be my space!: un mese prima di lasciare la casa in cui vivevo a Macerata, il proprietario decide di affittarla ad altre persone, decido cosi di documentare con due telecamere nascoste il passaggio delle persone interessate all’affitto della casa. Il video riflette sull’idea dello spazio come una scala mobile in cui tutti ci passano ma nessuno si ferma. Vivo a Torino da solo 3 anni, ho conosciuto una città che non solo cura il suo passato ma guarda con attenzione al futuro. Tuttavia non sono d’accordo quando si usa, ben spesso, l’espressione “artista torinese” o “artista piemontese”, la ritengo un’ espressione che limita chi vive e chi ci passa. Non esiste l’artista del territorio, esiste l’artista che vive e si confronta con il territorio. L’artista non ha bisogno di delineare il suo territorio, su quello ci pensano la politica e le istituzioni, che a Torino funzionano molto bene, localmente e internazionalmente.
Come mai il medium che utilizzi per documentare le tue performance è sempre il video?
Si, è vero che i medium prediletti sono il video e la fotografia, ma non solo. Mi interessa osservare i mezzi che utilizzo per arrivare alla costruzione dell’opera, uso il medium per dare forma all’idea e tramite una idea cerco di costruire delle immagini che contengono metafore che portano a nuove riflessioni. Credo che costruire un’idea non implichi solo sviluppare un progetto, significa anche arrivare a un obbiettivo. E per arrivare all’obbiettivo non ci si può limitare all’utilizzo solo di mezzi tecnici, un’idea per crescere ha bisogno del sostegno degli altri, in questo caso la comunicazione, la relazione e la messa in gioco da parte mia e degli altri è fondamentale per la realizzazione dell’opera performativa. Su cosa si basa essenzialmente la tua ricerca?
Dal punto di vista tematico, mi ha sempre affascinato la natura umana, le sue passioni, i sogni, i capricci, gli amori e i fallimenti, il suo equilibrio e disequilibrio, caratteristiche proprie dell’uomo contemporaneo. Tutto ciò diventa riferimento principale della mia ricerca. Le mie opere non sarebbero esistete se le persone che ho coinvolto direttamente o indirettamente nelle azioni performative, non avessero dato il loro contributo. Ad esempio in When I grow up I want to be un artist, ho proposto a mio padre di ritrarmi nei panni del dittatore albanese Enver Hoxha. Ovvero gli ho chiesto di rifare quello che lui aveva fatto per venti anni di seguito realizzando ritratti. In Bancrupt Artists lesson nr 2 ho invece chiesto a un insegnante dell’Università IUAV di Venezia di tenere ai suoi allievi una lezione su artisti falliti, mentre in Grand Tour_Italia, ho chiesto al curatore della mostra, alla quale ero stato invitato a partecipare, di fare la guida turistica al pubblico presente il giorno della inaugurazione di quella mostra.
Infine in This is a Castle! invito la mia gallerista e un curatore a seguirmi in un viaggio in Albania per una settimana: la gallerista doveva fotografarmi davanti ad alcuni castelli albanesi costruiti nei ultimi 10 anni e il curatore doveva annotare tutto quello che accadeva in quel viaggio. In altri casi sono io che mi lancio verso un’idea che mi ruota in testa: come quella di fare una nuvola mentre volo, The dream of Icarus was to make a cloud, o aspettare la luna nel momento in cui si avvicina di più alla terra e arrivare a sfiorare il suo riflesso sul lago buttandomi legato alla corda da un’altezza di 50 metri Some say the moon is easy to touch…. Dunque il medium diventa solo un pretesto per arrivare ad un obbiettivo.
A cosa stai lavorando ora?
Sto lavorando a un obbiettivo, più che a un progetto. L’obbiettivo è far arrivare il concetto del fallimento nelle Università o Accademie affinché rientri nella programmazione didattica, poiché è molto importante partire dalla formazione per costruire domani un nuovo pensiero. Parlo dell’opera citata precedentemente Bancrupt Artist lesson nr 2, un’idea che parte nel 2007, prendendo spunto dalla vita personale di mio padre e dalla frase di Samuel Beckett: “Fare l’artista vuol dire cercare il fallimento come nessun altro osi …”. Chiedo a dei professori di alterare le loro lezioni, all’insaputa dei loro studenti, in lezioni di storia sugli artisti falliti. Nel 2008 chiesi a un mio ex professore di tenere una lezione sugli artisti falliti all’Accademia di Belle Arti di Macerata (l’intervento sarebbe stato poi presentato in un video).
All’inizio il docente era entusiasta poi ammise di non volerlo fare più perché non voleva mettere in discussione la sua immagine pubblica. La lezione fallì trasformandosi così da un lavoro sul fallimento in un fallimento dell’idea stessa. Per un periodo decisi di abbandonare questo lavoro pensando al fallimento come parte del gioco. Ripresi questa idea nel novembre 2009, realizzandola all’ Università IUAV di Venezia, e avrà un seguito nel 2012.
Fallire significa darsi un’occasione per imparare, invece nella nostra società ci hanno insegnato che fallire vuol dire perdere, vuol dire non farcela. La casualità e l’abilita dell’individuo ci insegnano che si finisce un percorso per cominciarne un altro.