“Për ters at’ çast” è il cortometraggio di Gentian Koçi che tratta due fenomeni sociali: il suicidio e la disumanizzazione dell’etica nel mondo dell’informazione. Il quotidiano albanese Shekulli ha intervistato Koçi per capirne di più.
Il Primo ottobre del 2007, un giovane si diede fuoco in un parco nel centro di Tirana. Tutti i media trasmetterono le immagini. Su questo tema ha lavorato Gentian Koçi in “Për ters at’ çast” (Per sfortuna quell’attimo), il film del diploma nell’Accademia di Cinema e Multimedia Marubi. Gli studi li ha terminati, mentre il film continua la sua strada nei festival internazionali, principalmente a livello di scuole accademiche del film: Sofje, Tel Aviv, Prishtina, Durazzo, Monaco di Baviera, Milano, Trieste, ed è stato premiato più volte.
Inoltre, al SWIKOS Film Festival a Bazel, Svizzera,”Jinx in a jiffy” è stato valutato come il migliore sui 14 partecipanti.”Antenna”, il film precedente di Koçi è stato altresì un lavoro accademico scrupoloso. ”Për ters at’ çast” è un segno identificativo di Gentian in questa sua fase iniziale: ha unificato tutti gli elementi in un cortometraggio, riuscendo a collegare la storia con lo stile, il ritmo con il montaggio, i soggetti che parlano – ciascuno in un rapporto fluido con il mondo circostante – con una diversità di voci e attori e, per concludere, la sensibilità con la consapevolezza. Sicuramente questi parametri artistici non si sarebbero raggiunti senza la consapevolezza di due fenomeni tanto locali quanto globali: il suicidio e la disumanizzazione dell’etica nel mondo dell’informazione e delle tecnologie dell’immagine.
Quali dibattiti ha suscitato il film nei festival in cui hai partecipato?
Un elemento che richiama l’attenzione ed appartiene ad un tema universale, sono i media. Io assumo una posizione nei confronti dei media e della società albanese. I media hanno trasformato il pubblico in uno spettatore senza soggetto e sensibilità. Il film si basa sulla realtà dei fatti: un giovane in stato depressivo si è dato fuoco dal vivo nel Parco Rinia (Parco Gioventù). L’episodio è stato ripreso con il cellulare da un testimone oculare sul posto ed ha fatto il giro di tutti i cellulari di Tirana come qualcosa di strano. Nel frattempo i media l’hanno trasmesso come notizia d’apertura dei tg delle diciannove e trenta.
I familiari hanno assistito come telespettatori e solo alle ventidue e trenta hanno saputo che si trattasse di loro figlio. Mi chiedo, come è possibile che, mentre una persona commette un atto fatale, qualcun altro tiri fuori dalla tasca il cellulare e giri la scena trasmettendola come “qualcosa di strano”. Com’è possibile che i media facciano lo stesso: trasformarci, a noi pubblico, in spettatori, farci collaboratori, che così come loro, tiriamo fuori la nostra camera, dunque il cellulare, e ci mettiamo a girare qualcosa che non è nemmeno esteticamente bello da vedere. A Monaco di Baviera il film ha scaturito discussioni su questo concetto: com’è possibile che si registri e si trasmetta? Da dove viene questo coraggio? Poi credo siano anche gli elementi del film in cui si sofferma la discussione. L’idea dello scenario è la mia, ma l’abbiamo scritto assieme con Bora Ylli, la riprese sono di Aran Gjonbalaj e la musica di Mardit Lleshi.
La storia è quella che tu non racconti e non ti occupi nemmeno del suo background. La mancanza di informazione crea una suspense estrema. Cosa tiene presente il sceneggiatore, il regista in un caso come questo: raccontare di qualcosa che non deve apparire?
La scena in cui lui brucia non è trasmessa. Lo abbiamo deciso fin dall’inizio, perché altrimenti avrei fatto quello che hanno fatto le televisioni. La differenza tra il film e la televisione consiste in questo. La mancanza di quella scena della quale se ne parla in continuazione, crea una certa suspense, cioè, creo così un gioco con il pubblico che vedrà il video solo alla fine e attraverso i sottotitoli capirà quale è stata la vera storia. L’obiettivo era questo: nel momento in cui il pubblico leggerà di che si tratta, esso ritornerà al film, lo interiorizzerà, ed in un certo senso dirà: hej, ma che video volevate guardare. E poi che escano fuori i miei elementi come autore. Sono rimasto fedele all’accaduto, nonostante il film sia una fiction, pressappoco nel genere del documentario. Avrei voluto rimanere fedele alla maniera con la quale le persone hanno diffuso quel video, con quella freddezza senza nemmeno discutere del suo personaggio, del dramma che lui ha avuto, della sua storia, del perché l’essere umano arriva a questo punto. Noi viviamo in una società con una estrema transizione, abbiamo vent’anni, accumuliamo stress senza sosta. In un certo momento noi stessi possiamo essere personaggi in situazioni estreme. Questo lo dimentichiamo. Poi ci sono i media, per lo più una parte di loro, e il rapporto che queste costruiscono con la realtà.
Il titolo ci dice che se non ci fosse stato qualcuno a registrare, l’episodio ”non esisterebbe”.
Questo film non esisterebbe, tanto meno l’episodio. ”Për ters at’ çast” è l’ironia non solo di questo video ma del genere dell’immagine violenta che i media riproducono. Le cronache sono piene di notizie privi di etica riguardanti i suicidi. L’ho detto in precedenza che non sono nemmeno immagini estetiche da trasmettere.
La famiglia ha visto questo film?
Non lo so, non mi sono occupato di questo. Quando indagavo su questa storia, leggevo alcuni articoli dove i familiari dicevano: Facciamo appello sia ai media, che alle persone di non trasmettere questo video. È un enorme dramma per noi.
Nel linguaggio dei media, per i suicidi, si notano due parole chiave, che dimostrano una bassa cultura professionale ma anche umana per i problemi delle persone e le soluzioni che trovano quando annullano se stessi. Nelle cronache si usa la parola ”vittima” per la persona, una creatura passiva oramai, che non esiste più, e “abnegazione” per l’atto, che assomiglia ad una corona con fiori della fabbrica.
Penso che il film alzi questa preoccupazione. Non so perché quella persona ha fatto quell’atto, ma io lo vedo come protesta. Mi ha fatto impressione il fatto che il video del quale parliamo è stato trasmesso per altri quattro giorni consecutivi. I giornalisti alludevano a motivi sentimentali, questioni economiche, problemi psicologici. Nessuno si è occupato della persona. Non ho visto trasmissioni ove psicologi e professionisti facessero un’analisi più approfondita del fenomeno.
Tu conosci gli ambienti in cui si produce la notizia. Qualsiasi persona direbbe che stanno facendo il loro dovere.
Non lo so. So che manca l’etica. Non lo chiediamo alla persona che se ne va se vorrebbe apparire nei media. Lui fa l’atto ma non ha la possibilità di difendersi. Forse avrebbe voluto che nessuno si occupasse di lui, ma è impotente di parlare. Dunque chi ci da il diritto di parlarne e di trasmetterlo in virtù del compimento del nostro dovere? Questo film inizia con la scena in cui alcuni giornalisti vengono a conoscenza della notizia e partono alla ricerca dell’immagine. Queste sono scene che conosco, un gruppo di ripresa composto da tre persone: la giornalista, l’operatore e l’autista che volano come i pazzi per accalappiare l’immagine. Dalla mia esperienza in TV rammento il caso del omicidio in famiglia. È la storia del padre che ammazzò la figlia, come si diceva, perché tornava tardi a casa. Questa storia si è tenuta a lungo nei media. Dovevo riprendere delle immagini per la tv dove lavoravo. Era impossibile infiltrarsi nella loro abitazione. Ci hanno detto di rispettarci ma se tentavamo di entrare o fare riprese, le cose si sarebbero messo male per noi. Nel frattempo la giornalista ha tentato, invece io le ho detto che non potevo.
Quali difficoltà ha avuto la realizzazione del film?
Durante le riprese tutto è andato un po’ come lo stesso titolo del film. Al “Marubi” la polizia aveva conflitti fisici con gli studenti proprio durante le riprese. Il film ha scene di massa, ha molte postazioni di riprese, e molti attori i quali non sono stati pagati. Il film è stato realizzato con un budget pari a zero.
Il tempo non ha resistito per niente, pioveva, c’erano anche manifestazioni politiche. Mi era impossibile girare le riprese fuori, perché al microfono arrivavano i rumori della folla e dei leader che facevano propaganda. Questo è il film del mio diploma ed è realizzato con gli studenti della scuola. Le attrezzature sono della scuola. Io mi sono diplomato come regista, come secondo indirizzo avevo scelto lo scenografo. Volevo realizzare un film diverso da “Antenna”, senza la struttura classica dello scenario, senza un personaggio protagonista, senza un atto primo, secondo, terzo. Nonostante per me il personaggio protagonista mancante sia quel giovane, perché nessuno si è occupato di lui. Nemmeno oggi, nessuno fa un’analisi del perché avvengono così tanti suicidi in Albania, perché siamo arrivati fino a questo punto, e se queste persone hanno bisogno d’aiuto per non arrivare a tanto, e ovviamente aiutarle. D’altra parte, per me era una prova se sarei stato in grado di lavorare con scene di massa, con tanti personaggi, di reggere una produzione ancora più grande.
Questo film soddisfa la conservazione dell’equilibrio, della sensibilità umana e delle tue pretese estetiche?
Penso che l’essere umano sia universale, la sua interiorità è universale. L’essere umano è il film. La barriera per andare da lui, non l’abbiamo ancora oltrepassata. Siamo abituati a trattare esternamente i suoi problemi, senza penetrare in esso. Da quanto sembra la mia esperienza nel mondo dell’informazione, il mio passato, sia in gioventù che in infanzia, mi hanno fatto pensare sulla dignità della persona.
Hai iniziato a lavorare anche per uno scenario lungo?
Sto lavorando con Tomas Logoreci ed Iris Elezi. In centro sta la dignità dell’essere umano mischiato con questa nostra strana transizione che non passa e non passerà. È una sfida perché sono di natura paziente verso tematiche difficili che siano trattabili in scenari e nella produzione. Spero di finirlo a febbraio. La presentazione di questo ultimo film nei festival mi ha aiutato a creare ottimi contatti. Ha cominciato a circolare anche il mio nome. Il mondo del film per quanto grande sembri è altrettanto piccolo.
QKK, il Centro Nazionale della Cinematografia, ha aperto un concorso per documentari su tre temi: Scanderbeg, i fratelli Manaki ed esodo. Tu per quale avresti osato?
Le figure storiche sono importanti, ma è nella transizione che trovo me stesso. Lo scenario che ho in mano, contiene il terzo tema di cui si parla. Perché sono stato parte di un episodio di questo genere. La maniera di come ci hanno tolto i confini, questa mi sembra essere tra le più interessanti. Il tema dell’esodo mi sembra una buona iniziativa e un grande tema che richiede grande impegno, ricerche in archivi, immagini reali. Non so se si hanno riprese o meno, poi richiede ascolti, se puoi realizzarli o meno ecc. Se si farà un documentario con un solo narratore che racconta la storia, per me sarà un fallimento.
Articolo di Elsa Demo. Pubblicato sul quotidiano albanese “Shekulli” del 12 dicembre 2010. Titolo originale: “A ka vend për dinjitetin e njeriut” .Tradotto per Albania News da Jona Mullaraj.
“Për ters at’ çast” , cortometraggio di Gentian Koçi
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