Dopo la notte in traghetto, verso le sette del mattino arriviamo in vista del Porto di Durazzo. Siamo in quattro: Anduena, che sarà la nostra preziosa guida per qualche giorno, suo figlio Giuseppe, Lucia ed io.
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Quasi all’imboccatura del Porto, una lancia velocissima viene verso di noi, si accosta al traghetto, ne esce un uomo in muta nera che dall’alto sembra un grosso ragno; da un portello laterale qualcuno gli porge un braccio per aiutarlo a salire a bordo. Anduena ci spiega che è il Capitano del Porto e che guiderà personalmente le operazioni di ingresso e attracco del nostro traghetto in quanto mancano i radar.
Si incominciano a distinguere le caratteristiche cupolette di una chiesa ortodossa e snelle sagome di minareti; su una collinetta a sinistra, la villa di re Zogu.
Sono molto emozionata; sento risuonare dentro di me le parole di mio padre: “Vedrò la terra d’Albania con i tuoi occhi!”.
Percorriamo in macchina gli oltre 100 chilometri che ci separano da Scutari, e nelle poco più di due ore di percorso in autostrada – si chiama così! – possiamo già cogliere il contrasto dei due volti dell’Albania: edifici diroccati e in disfacimento, ma anche villette dai colori vivaci sparse per la campagna, spesso a due piani e completate solo al piano terra; al piano superiore, vasi di fiori su balconi senza ringhiere.
C’è un traffico intenso e disordinato. Un ragazzo chiede un passaggio offrendo in cambio…un coniglio bianco! Nei campi i contadini usano attrezzi primitivi, come il falcione e l’aratro con i buoi, e dappertutto, tra il verde dell’erba alta, spuntano come funghi malefici e spettrali i bunker della dittatura.
Siamo alle porte di Scutari, ed ecco il colle di Rozafat ed i resti del Castello con le sue torri merlate che si stagliano sul cielo azzurro! Prima di entrare in città, facciamo una deviazione per vedere l’unico edificio religioso che si è salvato dalla furia distruttrice dell’ateismo di Stato: la Moschea di Piombo, imponente e austera.
L’ingresso a Scutari non è molto accogliente: sulla sinistra, fatiscenti case popolari; sulla destra, un dedalo di baracche di zingari.
Arriviamo finalmente all’Istituto giallo e verde delle suore salesiane. E’ sabato ed è la festa della famiglia; c’è un mare di bambini e di ragazzi dappertutto, nel vastissimo cortile, nella palestra, forse anche in altri ambienti. La struttura è bellissima, moderna e ben curata. Io e Lucia siamo accolte con calore dalle suore, sei in tutto, e una di loro ci accompagna nelle nostre stanze, singole e con bagno, nella zona ‘suore’ dell’edificio.
Nel pomeriggio ci addentriamo nella città. Nella piazza principale, si possono cogliere con un unico sguardo una bellissima moschea con i suoi eleganti minareti, le cupole ed il campanile dell’unica chiesa ortodossa di Scutari, il campanile della cattedrale cattolica di Santo Stefano. Ha ragione Anduena: qui si devono solo provare sensazioni e cogliere atmosfere.
Entriamo in un negozio di oggetti etnici: i tipici copricapo bianchi, di foggia sia albanese che turca, le lahutë, le tovaglie bianche e rosse tessute a mano, le caratteristiche filigrane, busti e rilievi in legno di Skanderbeg.
C’è tanta gente che passeggia, molta polvere nell’aria, forse perché ci sono lavori in corso dappertutto; passano alcuni mezzi che spargono acqua per attutirla. Per consumare qualcosa bisogna scegliere il bar giusto, perché nella maggior parte ci sono soltanto uomini. Quello in cui ci sediamo per prendere un gelato è molto elegante; un nutrito gruppo di giovani donne sta festeggiando qualcosa; nel salutarsi, si baciano quattro volte sulle guance.
La sera, a cena con le suore, incontriamo per la prima volta le due laureande statunitensi che sono appena arrivate e che realizzeranno con noi il progetto di potenziamento linguistico, di italiano ed inglese. Si crea subito un clima cordiale con loro e con le suore.
Mi addormento con l’animo colmo delle molte emozioni della giornata. Nella notte, sento una musica dolce e gentile, che sembra voler cullare il mio sonno più che svegliarmi. Guardo l’orologio: sono le quattro e mezzo. Comprendo allora che è il primo segnale del giorno che sta per nascere e che proviene dai minareti della vicina moschea. E’ il richiamo islamico che ritorna cinque volte al giorno, e che presto diventa familiare scandendo la giornata; quello della sera coincide con l’orario di preghiera delle suore e si fonde con i loro canti nella cappellina dell’Istituto; è un bel segnale di ecumenismo!
Impossibile raccontare le cose, le persone, gli avvenimenti che ci hanno stupito ed emozionato nelle due settimane di permanenza a Scutari.
Anzitutto l’incontro con i ragazzi; classi numerose, di giovani che sono consapevoli del privilegio di poter studiare e che ci accolgono con molto rispetto e curiosità. Non ho difficoltà a comunicare con loro, sia perché mi aiuto con vocaboli arbëreshe, sia perché ce n’è sempre qualcuno che conosce meglio l’italiano e fa da interprete; alcune volte è presente l’insegnante di storia. Parlo con loro dell’Arbëria nei suoi molteplici aspetti, e mi stupisco del fatto che conoscano ben poco delle nostre comunità, sulle quali mi fanno sempre tante domande.
L’Istituto ha anche un Collegio che accoglie cinquanta ragazze; per la maggior parte provengono dai villaggi di montagna e ritornano a casa il venerdì sera. Sia io che Lucia facciamo vigilanza nelle loro ore di studio pomeridiano, per cui abbiamo l’opportunità di conoscerle meglio, di sfogliare i loro libri di testo, di raccogliere qualche loro confidenza, anche se sono alquanto riservate.
Nelle ore libere del mattino, a volte facciamo visita alle classi di scuola dell’infanzia e a quelle di scuola elementare, o raggiungiamo i bambini in palestra, dove spesso assistiamo alle prove di spettacoli in preparazione per la fine dell’anno scolastico. I più piccoli sono dei formidabili acrobati, i più grandi cantano con belle voci intonate e con grande trasporto.
Siamo consapevoli di trovarci in un’oasi felice e che l’Albania non è tutta così, per cui accettiamo volentieri l’invito di Suor Ausilia a visitare il villaggio di Tale, dove due suore si recano da Tirana in una struttura provvisoria ogni fine settimana, e dove presto inizieranno i lavori per la costruzione di un nuovo Istituto salesiano.
Una folla di bambini e di ragazzi ci circonda, vogliono sapere chi siamo, conoscere i nostri nomi, toccare la nostra macchina fotografica. La zona è poverissima, case che sono baracche, collegate alla strada (!) attraverso rudimentali passerelle in legno su un canale pieno di canne e di zanzare. Però ci sono anche tante casette singole in costruzione, strutture semplici, colori vivaci. Siamo molto turbate da tanta gioventù che non ha nulla.
Non sono riuscita a ricostruire come e perché, ma vengo invitata a tenere una conferenza all’Università, Istituto di Linguistica, agli studenti degli ultimi due anni laureandi in Lingua Italiana. Tema dell’incontro: “Gli albanesi d’Italia: una cultura nella Cultura”.
In un’Aula Magna colma di giovani, ai quali ho letto tra l’altro alcuni versi de “I canti della Rinascita” di E. Koliqi che loro non conoscevano, ai quali ho parlato delle nostre tradizioni e del nostro Parco del Pollino, ho vissuto l’esperienza per me più emozionante e gratificante di questo viaggio!
E che dire degli incontri con tante persone che ci hanno raccontato del lungo periodo buio della dittatura? Suor Roze e suor Teuta, le cui famiglie sono stata ridotte alla miseria ed alle sopraffazioni più crudeli; zoti Aleksander, che tra le lacrime ha ricordato l’incendio della sua chiesa ortodossa, le bastonate che gli hanno incrinato le vertebre e rotto le costole, la lunga permanenza in alta montagna ‘dove neppure le galline potevano trovare semi da beccare’; la stele nel Collegio dei Gesuiti che ricorda tre confratelli barbaramente massacrati; e tanti altri racconti, di cui i protagonisti portano ancora i segni ed un doloroso ricordo.
Mi piace ricordare anche la delicata disponibilità dell’insegnante Leta, che si è offerta di accompagnarci in una lunga passeggiata nella città antica, dove abbiamo tra l’altro visto il palazzo dei Koliqi, gli eleganti pozzi in pietra dei cortili, i molti istituti religiosi, ma anche tante case e palazzi abbandonati e cadenti; e la generosità di Marieta, che con un fuoristrada preso in prestito ci ha portato a visitare il Castello di Rozafat ed ad ammirare da lassù il panorama mozzafiato sul lago di Scutari con sullo sfondo le Alpi albanesi.
La nostra è stata, insomma, una permanenza veramente speciale, dalla quale abbiamo riportato la sensazione di un Paese in grande fermento di ricostruzione, anche se per ora frenetica e disordinata, e con una gioventù che vuole guardare al futuro ed essere in Europa, come è testimoniato anche dalla costante presenza della bandiera europea accanto a quella nazionale, ma che coltiva le proprie radici e vuole sperare.
Mi piace concludere riportando le parole di una ragazza del penultimo anno di studi, al momento della nostra partenza: “Portate il nostro saluto ai fratelli che sono in Italia, e dite loro che adesso sappiamo che ci vogliono bene, che non hanno dimenticato gli antichi legami, e che noi li ricambiamo con gli stessi sentimenti”.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato sulla rivista Katundi Ynë – Paese Nostro, nel numero 137/3, anno XL- 2009 dell’autrice Emilia Blaiotta, dirigente dell’Istituto Comprensivo ‘Ernest Koliqi’ di Frascineto