In un recente convegno dedicato alla storia e alle culture degli Arbëreshe, Pierfranco Bruni, uno studioso tra i maggiori esperti di cultura delle minoranze linguistiche, Responsabile del Mibac sulle problematiche relative a tali questioni, ha svolto una relazione puntualizzando alcuni particolari sul rapporto tra Italo – albanesi, viaggiatori e territori. Un patrimonio da tutelare e valorizzare.
Sui passi dei viaggiatori – Scrittori stranieri e italiani tra gli Arbëreshe
L’Italia è stata visitata da viaggiatori e scrittori che hanno dedicato pagine emblematiche al territorio e al paesaggio oltre a sviluppare ricerche sulla storia delle comunità italiane. Soprattutto quei viaggiatori che si sono soffermati sulle lingue minoritarie e sulle etnie hanno sottolineato alcuni particolari elementi che hanno una valenza sia letteraria che di ricerca e riflessione storica. I viaggiatori stranieri in Italia. In quella Italia delle culture sommerse e delle lingue “tagliate”.
Il progetto, pertanto, si propone di avviare un’ ‘azione’ in favore della conservazione e della conoscenza di culture di tradizione millenaria nel nostro Paese, che traggono origine da un costante rapporto di osmosi tra le popolazioni della costa orientale dell’Adriatico e le regioni del centro e sud Italia, tra quelle provenienti da tradizioni non italiane ben integrate nel contesto nazionale a quelle radicate nelle isole, tra quelle del nord a quelle prettamente di origini mediterranee.
Da De Rada a Koliqi ci sono viaggiatori scrittori che restano gli attraversatori di generazioni che hanno raccontato la storia e la metafora, la religiosità e l’estetica, il tempo e la letteratura. Il tema del viandante resta fondamentale sia nel poeta di Macchia che nello scrittore e critico albanese. Uno dei maggiori studiosi che ha creato un legame fondamentale tra letteratura e viaggio e ha saputo catturare l’anima della cultura italo – albanese, in un contesto in cui i luoghi non sono soltanto rappresentazione del reale ma anche modello antropologico e metaforico, è stato Ernesto Koliqi.
Tra metafore e scenari reali dava un’immagine ad impatto di un viaggio tra i paesi albanesi. Non di viaggiatore ma di viandante parla Koliqi. Una vera e propria coloritura di impressioni che offrono uno spaccato singolare.
Ernesto Koliqi in una Conferenza, svolta a Cosenza il 20 settembre del 1964 in occasione del Congresso della Dante Alighieri, dal titolo “Gli Albanesi in Calabria” sottolineava:
“Anche al viandante esperto di contrade e genti le più diverse del mondo, raramente avviene d’incontrare come in terra di Calabria, ricca di sconosciute meraviglie, costumi così suggestivi per armoniosa fusione di tinte.
Si riflettono in essi i colori ora vividi ora sfumati del mare e del cielo mediterranei e l’incanto delle primavere rigermoglianti su piani e alture che coprono resti di antiche civiltà e di cui la risonanza musicale del nome conserva tenaci sapori classici. I solenni orizzonti che ci danno il senso dell’infinito, perdendosi oltre i grandiosi scenari dei monti, sembrano immersi in un’aura di primordiale solitudine dove spazio e tempo assistono immobili all’avvicendarsi di condizioni umane, le quali mantengono pressoché intatta nella loro interiorità una remota saggezza materiata di millenarie esperienze.
Terra di monaci, filosofi e poeti, di pastori ed eroici fuorilegge che sempre preferivano la libertà dei boschi a una vita menomata nella sua dignità da crude costrizioni tirreniche, mobilissima terra abitata da gente rude e silenziosa che cela nelle pieghe dell’anima singolari qualità umane, le quali lampeggiano di viva improvvisa bellezza a chi vi si accosti con cuore amico a somiglianza dei segreti recessi pieni di prode fiorite e fresche acque, inseriti fra le quinte delle sue aspre rupi montane.
In mezzo a questi ariosi paesaggi e a questa gente gagliarda spiccano senza discordanza i costumi e svaria nella policromia delle consuetudini autoctone l’esotica carica di colore delle usanze degli Albanesi d’Italia e delle loro spettacolari cerimonie religiose di rito bizantino”
(Ernesto Koliqi, Saggi di letteratura albanese, Leo S. Olschki, 1972, pag. 76).
La figura di Girolamo De Rada resta, chiaramente, centrale in un discorso in cui si parla di letteratura viaggio soprattutto se si pensa, in termini allegorici (perché la letteratura è anche allegoria) alla visione del “Milosao”. Ma questo potrebbe diventare un percorso a sé che va ad inserirsi in tutta nella letteratura Arbëreshe in una lettura tra identità, tradizione e memoria.
I Paesi Balcani hanno vissuto un conflitto che è stato di natura spirituale e che ha trovato proprio in Europa e in Italia il suo più importante risvolto. Un esempio perché interessa in modo particolare l’Italia meridionale, quell’Italia che è dentro, appunto, il Mediterraneo. La guerra tra gli Albanesi e i Turchi nella temperie del 1400 racconta uno scontro di civiltà ma anche una precisa scelta. Gli Albanesi, proprio alla fine del 1400, hanno rappresentato un baluardo della cristianità. La difesa della cristianità contro i Turchi e contro l’islamizzazione dei Paesi che ruotavano intorno all’Albania. Uno scontro etico e storico tra musulmani e cristiani.
L’Albania cristiana si è rivolta proprio all’Italia in quel frangente particolare ed ha trovato qui nel Mediterraneo d’Italia un raccordo di civiltà. Il discorso sembra però diverso rispetto a ciò che accade in questi anni. Vi era la difesa in nome di Cristo. E Skanderbeg era diventato il protettore della cristianità di quei Paesi. Questo è un piccolo spaccato di una realtà storica che va compresa fino in fondo. Ma quella storia ha dato vita ad una cultura della diversità nel contesto italiano, la cui diversità è ricchezza tuttora.
Gli Arbëreshe sono stati un popolo in fuga che ha focalizzato la consapevolezza del viaggio. Una letteratura non più della fuga ma del ricordo e quindi della memoria.
Memoria e immaginazione sono elementi del luogo della metafora della letteratura. Un popolo che ha vissuto di fughe e di diaspore si porta dentro il “perduto” come lacerazione di un valore identitario. Ecco perché la memoria costituisce l’anima della tradizione di un popolo che si aggrappa al cuore di una civiltà (quella ereditaria) che è segnata dalla separazione.
Nella cultura letteraria del mondo italo – albanese questi due concetti (che si stabiliscono attraverso un dialogo che è tutto vissuto tra metafora e realtà) costituiscono un processo in cui il termine base resta essenziale. Si parla di viaggio. Scrittori in viaggio nei luoghi o scrittori che rivendicano la presenza fondamentale del termine viaggio come allegoria o come simbolo.
Nel primo caso bisogna riconoscere che i luoghi reali sono elementi di una mera rappresentazione, i quali vanno raccontati e descritti attraverso una visione che tocca avvenimenti, testimonianze, cronaca.
Nel secondo caso si entra in una dimensione che è completamente calata nel sentimento della memoria e nel fascino del superamento della cronaca stessa pur non perdendo i contatti con gli stessi luoghi reali. Una letteratura dell’immediato e della descrizione e quindi della rappresentazione sempre nel primo caso. Una letteratura della deposizione della storia e della fisionomia, a volte, onirica nel secondo caso. Una geografia fisica che pone dei contatti nel primo caso. Una geografia – tempo nel secondo caso.
Il più delle volte quella letteratura che trova nella geografia fisica un punto di riferimento è fatta dai viaggiatori – viaggianti, ovvero da colore che viaggiando in Italia si sono trovati ad attraversare, volutamente o meno, paesi e territori arbëreshe e li hanno descritti, quasi fotografandoli o dipingendoli, anche con straordinaria meraviglia: mi riferisco ad Alexandre Dumas o a Norman Douglas. Pagine memorabili in cui il racconto si muove sulla descrizione.
Si riporta un passo di Dumas dalle pagine dal titolo “Bellini”:
“Dopo un’ora e mezza di cammino arrivammo a Vena. La nostra guida non vi aveva ingannati perché alle prime parole che rivolgemmo ad un abitante del paese ci fu facile capire che la lingua che parlavamo gli era perfettamente sconosciuta come a noi quella nella quale ci rispondeva. Ciò che venne fuori da quella conversazione fu che il nostro interlocutore parlava un dialetto greco – italico e che il paese era una delle colonie albanesi che emigrarono dalla Grecia, dopo la conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II”
(Alexandre Dumas, Viaggio in Calabria, Rubbettino, 1996, pag. 113).
Sì, è propria la straordinaria meraviglia che incide, in modo particolare, nei viaggiatori. A loro cospetto sembrano apparire popolazioni rare e stabiliscono anche un contatto di curiosità con le realtà territoriali. Un richiamo alla grecità è diffuso anche se si pongono questioni di ordine storico di altra natura. Comunque restiamo nel campo letterario. Questo è quell’aspetto che si definisce propriamente come letteratura di viaggio.
La letteratura di viaggio, in questo caso, è anche dettata dalla curiosità. Conoscere per soddisfare il bisogno di curiosità e non tanto di consapevolezza e non tanto di leggere modelli di identità che sono già, in molti casi, parte integrante della storia stessa dello scrittore che viaggia.
Invece la letteratura – viaggio (o meglio la letteratura e viaggio) non si mostra, appunto, con la meraviglia ma con uno stato di consapevolezza e l’approccio è completamente diverso.
Si fa riferimento, ad esempio, a Raymund Netzhammer, un monaco benedettino che compie nel 1905 un suo viaggio nei paesi albanesi della Calabria e ne scrive delle pagine di una singolare importanza. I luoghi ci sono, le immagini anche, così le atmosfere ma in questa testimonianza emerge la consapevolezza di una identità che è appartenenza. Non c’è la curiosità tout court ma è presente l’interpretazione meditativa.
In questo caso pur essendoci, comunque, un percorso fisico nei luoghi, l’approccio è di altra natura. Si cercano questi luoghi per rafforzare dei codici di identità e non per alleggerire la curiosità stravagante dei viaggiatori anche se questi hanno dato un sicuro contributo alla conoscenza dei territori. Perché i loro scritti hanno permesso di sviluppare un immaginario dei luoghi e delle tradizioni. Cosa che chiaramente non bisogna disconoscere.
Bisognerebbe soffermarsi proprio sul termine viaggio. E’ su questo concetto (sostantivo) che si aprono le strade di una letteratura che offre interpretazioni anche sulla stessa letteratura arbëreshe. Il viaggio si compone di una partenza e di un ritorno.
Il discorso diventa complesso quando però i viaggiatori o gli scrittori che viaggiano sono appartenenti alla stessa cultura italo – albanese. E’ naturale che il sentimento è un trasporto abbastanza profondo.
Come nel caso di Raymund Nethammer. Ma già, forse, nel suo caso si presenta una questione particolare in quanto essendo egli un monaco benedettino, pur Rettore del Pontificio Collegio Greco di Roma, gli Arbëreshe assumono un immaginario sì sentimentale ma non profondamente consanguineo.
Emblematico questo passo di Nethammer:
“Lo scopo principale del mio viaggio, era di venire a conoscere la patria dei miei alunni e le condizioni ecclesiastiche locali. Queste ultime sono tanto più caratteristiche in quanto quegli albanesi, circondati completamente da latini, hanno mantenuto il rito greco della loro patria.
In tal guisa viaggiai alcune ore tranquillo verso il nord. Sapevo che prima dovevo scendere verso il golfo di Taranto, presso la stazione di Corigliano”
(Raymund Nethammer, Tra gli albanesi di Calabria, Il Coscile, 2003, pag. 10).
E ancora sempre di Nethammer:
“Eravamo appena usciti fuori del villaggio che già il loquace vecchio aveva portato felicemente la conversazione sul grande eroe nazionale Skanderbeg. Egli parlava con tale entusiasmo e con tale chiarezza delle gesta di questo eroe degli albanesi che si sarebbe potuto credere che il vecchio cantore fosse stato lo scudiero dell’eroe in tutte le sue dure battaglie contro i turchi. Eppure le battaglie e le vittorie dell’ardito Giorgio Castrista che propriamente si chiama Skanderbeg, avvennero nella metà del XV secolo” (Op. cit).
Norman Douglaslascia oltre a delle pennellate descrittive questa cesellatura:
“L’orgoglio di San Demetrio è il suo collegio (…)…La lingua è di tale difficoltà che dopo cinque giorni di residenza, io ancora mi ritrovo in impaccio…”
(Norman Douglas, Vecchia Calabria, Giunti Martello 1983, pag. 272).
In un passo della lettera di Duret de Travel del 1820:“…Questi esuli hanno conservato la loro lingua, il libero esercizio della loro religione e i loro costumi, che sono molto ricchi ed eleganti, oltre che di un effetto singolarmente grazioso…” (Duret de Travel, Lettere dalla Calabria, Rubbettino 1985, 51 – 54).Un frammento di viaggio di Jorgaqi, che mostra una sua interessante lettura.
Si legge in Nasho Jorgaqi: “Andare tra gli Arbëreshe e non passare per Napoli significa non conoscere pienamente il teatro della loro storia. Quasi tutte le loro peregrinazioni attraverso l’Italia passano per questa città. Più tardi Napoli, quale capitale dell’Italia Meridionale, entrò nella storia degli Arbëreshe, come questi in qualche misura entrarono nella sua storia tempestosa” (Op. cit., pag. 202).
Una studiosa di origine Arbëresh, Grazia Marchianò, in una pagina dedicata a Coomaraswamy, riflettendo sull’arte, ha sottolineato:
“…l’arte è un veicolo del sacro, e l’artista l’officiante di un rito che utilizza la forma per risvegliare la coscienza, la memoria, la vocazione al senza forma” (Grazia Marchianò in Ananda Coomaraswamy, La trasfigurazione della natura nell’arte, Rusconi, 1990, pag. 7).
L’arte e la letteratura sono un incontro costante. Soprattutto quando le categorie del tempo formano il luogo – non luogo del viaggio. Un’estetica dell’essere che senza gli orizzonti della memoria non avrebbe voce la stessa letteratura che è metafora del viaggio. Un ulissismo che nell’allegoria si legge come esodo. La memoria nella letteratura Arbëreshe acquista la lettura omerica ma anche biblica.
Il senso del tempo, comunque, è una metafora che anche nella letteratura arbëreshe attraversa i luoghi in un modello preciso di identità. Ma in questo destino viaggio c’è sempre l’ansia del ritorno. Un viaggio senza il desiderio del ritorno non avrebbe senso come non avrebbe senso una letteratura viaggio senza il sentimento della memoria.
In uno scrittore propriamente Arbëresh si legge nella chiusa di un suo racconto:
“Vi raccomando se passerete dai paesi albanesi andate a salutare Macchia con i suoi tramonti di acque e di foglie. Aspettate all’uscita della chiesa le poche vecchiette vestite di nero, in mezzo a loro c’è mia madre; due passi più indietro una ragazza sola con negli occhi il colore del mare.
Ancora una volta me ne vado con le stesse ombre nel cuore” (Franco Esposito, Con la faccia al sole, Microprovincia, 1984, pag. 55).
La dolcezza della memoria è nella malinconia di una partenza che si raccoglie nel sentimento del distacco. Ma partenza e distacco sono riferimenti essenziali della letteratura del viaggio. Di quella letteratura viaggio che non è letteratura di viaggio.
Il punto cruciale è proprio qui. Un sublimare le immagini che separano la cronaca dal simbolico. Nel brano appena citato tutto supera la rappresentazione e resta come un indefinibile inciso nella memoria che recupera i segni del tempo.
La letteratura viaggio è un tracciato in cui i segni del tempo sono esistenza. Viaggi e viaggiatori tra i luoghi e le storie. Quei luoghi che restano sempre dimensioni reali ma anche dimensioni metaforiche in un tempo che si consuma dando spazio alla memoria. Viaggiatori e viandante. In questi “viaggiatori”, qui citati, l’anima del viandante, ben definito da Koliqi, è una voce che si fa destino.
Lo stesso destino che ha guidato il popolo albanese, nella diaspora o nell’esodo, a fermarsi tra quei territori italiani che segnano ormai il tracciato di una vita e di intere generazioni.
Ebbe a dire nella conferenza di Cosenza del 20 settembre 1964:
“Da cinque secoli ormai questi Albanesi sono stanziati nella penisola italica… La superiore civiltà di cui è permeato il popolo d’Italia permise agli esuli di mantenere vive la lingua e le tradizioni d’origine”. E poi più avanti: “Gli Albanesi odierni discendono dagli Illiri e ne continuano la parlata. Illiri erano e perciò consanguinei agli Albanesi anche i Messapi e i Peucezi della costa italica come lo erano più in su i Veneti. Il sangue affine già nella lontana antichità promuoveva fra le due sponde fitti rapporti, ma questi vennero aumentando nel periodo romano e bizantino…”.
Un viaggio nella storia di un popolo e nella geografia di comunità. Il viandante non smette di viaggiare perché il senso e l’orizzonte di questo andare e ritornare metaforicamente vive dentro il cuore, dentro l’anima.
La letteratura dei viaggiatori arbëreshe o albanesi in terra di Arberia ha i connotati ben marcati che sono immediatamente visibili e leggibili a primo acchito sia per conoscenza e vissuto sia per quel senso di radicamento che dà una caratura di una straordinaria sensibilità (non sempre in positivo) al rapporto stesso tra sentimento e viaggio. Ma in questo caso si avverte la passione, il voler autodefinirsi e viene meno il sottile spirito critico che non favorisce le descrizioni e il racconto.
Proprio per questo si colgono impressioni ed espressioni importanti dagli scrittori e dai viaggiatori che non appartengono alla cultura arbëreshe. Si pensi al viaggio di Guido Piovene e Carlo Belli, alle impressioni di Carlo Levi, ad una lettera di Antonio Gramsci, ad uno spaccato significativo di Nicola Misasi.
Carlo Belli nel suo “viaggio in Lucania” (risale al 1956) così annota: “…si esce da Venosa e si entra poco dopo nel villaggio albanese di Maschito. La gente è molto gentile: si esprime correttamente in italiano, capisce il lucano e parla il dialetto orientale d’origine. Ma come vive! Muli e maiali fanno parte della famiglia: abitano la stessa camera; e nessuno trova niente da ridire. (…) Maschito… è abbastanza elevato da dominare gran parte del Tavoliere: la Puglia è lì di fronte. Se vedono grande chiazze bianche al sommo delle ‘murge’…” (Carlo Belli, Giro lungo per la Lucania, Edizioni della Cometa, 1989, pagg. 65 – 66).
Mentre in Guido Piovene si legge:“…Un accenno speciale spetta ai loro canti albanesi, nei quali la nenia orientale sembra mescolarsi a rtimi che ricordano gli spiritual megri. Nei dintorni di San Denetrio Corone sorge la chiesa di Sant’Adriano con affreschi bizantini simili a quelli di Monticchio nella Lucania ed apparentati ai mosaici di San Vitale di Ravenna…” (Guido Piovene, Viaggio in Italia, Baldini & Castaldi, 1993, pagg. 661 – 662).
Tra viaggio nei luoghi e viaggio in una cultura che è espressione di processi non solo antropologici ma anche esistenziali dove non mancano elementi sociali. Perché in fondo il tutto si potrebbe tradurre come il viaggio vero in una cultura attraverso le tradizioni e l’arte.
Tra quelli non italiani oltre a Douglas e Dumas e il già citato Netzhammer è importante citare, fra gli altri, una lettera di Duret de Travel, un’altra di Astolphe de Custine, un libro di Nasho Jorgaqi (scrittore albanese) dal titolo: Lontano e vicino. Viaggio tra gli albanesi d’Italia, Pellegrini, 1991.
Il paesaggio, il luogo, lo sguardo costituiscono gli elementi della descrizione. Una descrizione che si confronta, comunque, con il tempo. Ma il tempo è fatto anche di rovine che si infiltrano nel nostro immaginario
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