Intervista ad Antonio Mumolo, presidente dell’’associazione di avvocati volontari.
Quando nasce “Avvocato di strada”?
Il primo progetto è partito nel 2001, all’interno dell’associazione Amici di piazza Grande, che da anni si occupava di persone senza dimora a Bologna. Ci eravamo resi conto che le persone che vivono in strada in breve tempo accumulano una serie di problemi legali che possono impedire il ritorno a una vita diversa. Chi vive in strada non può pagare un avvocato o chiedere il gratuito patrocinio, cioè il pagamento delle spese legali da parte dello Stato, e quindi non può far valere i propri diritti fondamentali.
A quante persone date assistenza legale?
Dal 2001 a oggi abbiamo aperto circa 8000 pratiche e dato un numero quasi incalcolabile di consulenze che poi non sono sfociate in vere e proprie pratiche di tutela. Sono solo persone senza dimora o il progetto si è esteso ad altri cittadini?
La nostra associazione si può occupare solamente di persone che vivono in strada: chi vive nei dormitori, nei centri di accoglienza, le donne vittime della tratta, tutte persone prive di documenti e reddito e che non avrebbero altre possibilità di difendersi.
Come vengono a conoscenza del vostro servizio?
Tutte le nostre sedi sono all’interno di associazioni di volontariato che si occupano di persone senza dimora con progetti come mense, distribuzione abiti o dormitori. Non avrebbe senso aprire una sede in uno studio legale perché le persone senza dimora tenderebbero a non darci fiducia. Essere nei luoghi già frequentati dai senzatetto è il modo migliore per farci conoscere.
L’assistenza è completamente gratuita o in alcuni casi si chiede un contributo?
Noi non chiediamo nulla ai senzatetto che si rivolgono a noi: il lavoro degli avvocati è volontario e le spese legali, quando ci sono, sono a carico dell’associazione. Nella stragrande maggioranza dei casi le persone che vivono in strada non hanno i requisiti per accedere al gratuito patrocinio perché non hanno la residenza anagrafica, sono privi di documenti e della documentazione sulle proprie problematiche legali. Nei pochissimi casi in cui può essere richiesto il gratuito patrocinio, l’eventuale entrata viene versata dagli avvocati nel fondo dell’associazione che serve a sostenere le spese legali degli altri utenti.
I dati 2009 mostrano una prevalenza di persone straniere: i senza fissa dimora quindi sono soprattutto stranieri?
Dipende molto da dove si trova il nostro sportello. In alcune città, come Bologna, le persone che si rivolgono a noi sono per il 50% italiane e per il 50% straniere. In altri casi, per esempio a Foggia, dove tantissimi stranieri sono impiegati nelle campagne, la quasi totalità degli utenti è straniera. Quello che sappiamo è che gli stranieri, per la mancanza di forti reti personali o familiari, hanno meno possibilità di uscire da una situazione problematica, ma sono moltissimi anche gli italiani che finiscono in strada per i motivi più diversi: se non si ha un sostegno da parte della famiglia o degli amici, anche un lutto, una malattia o la perdita del lavoro, eventi “normali” che potrebbero colpire chiunque, possono condurre in strada. Nel vostro lavoro riscontrate pregiudizi da parte della Pubblica amministrazione, dei giudici o delle forze dell’ordine?
Spesso le persone che vivono in strada vengono definite “invisibili”, ma per la legge finiscono per essere molto più visibili di altre: abbiamo tantissimi casi di fogli di via dati ingiustamente, multe comminate per vagabondaggio o perché una persona dorme dove non potrebbe. Basta un semplice esempio: nelle stazioni italiane si potrebbe transitare solo se si ha un titolo di viaggio in tasca, ma nessuno chiederà mai a un italiano ben vestito che va a prendere un parente se in tasca ha un biglietto. Invece, il controllo viene spesso subito invece da chi si trova in stazione perché è un luogo dove ci si può scaldare, andare in bagno…e prendere molte multe!
Tra le nazionalità, potete dirmi qualcosa di più sulle persone di origine albanese? quanti si sono rivolti al servizio e per quali problemi?È difficile fare statistiche ma negli ultimi anni il numero degli albanesi che si sono rivolti a noi è nettamente calato: nei primi anni della nostra attività c’erano molte persone che arrivavano dall’Albania e dalla ex Jugoslavia in fuga dalla guerra, con problemi legati al permesso di soggiorno o all’asilo politico. Oggi, i senza dimora albanesi hanno gli stessi problemi delle altre persone che vivono in strada: mancanza di documenti, multe, fogli di via…Qual è il “caso tipico” della persona che si rivolge a voi, e quanto tempo occorre dal primo contatto alla soluzione del problema?
Il tempo in cui riusciamo a risolvere un caso può variare molto: a volte basta una telefonata o una lettera per sbloccare una situazione. Altre volte dobbiamo fare lunghe ricerche o intentare cause che necessitano di molto tempo, e questo è problema per chi vive in strada e ha necessità impellenti. Il problema che affrontiamo più spesso è quello della residenza anagrafica: molti non sanno che chi perde la residenza- un caso frequentissimo tra chi vive in strada – viene privato del diritto di voto, dell’accesso al sistema sanitario nazionale se non per cure di pronto soccorso, perde la pensione perché gli enti previdenziali non sanno dove spedirla, non può iscriversi ai centri per l’impiego. Per legge i comuni sarebbero tenuti a dare la residenza a chi vive in una data città, ma molto spesso questo non avviene: per paura di dover fornire servizi supplementari, i comuni negano la residenza e lasciano che le persone rimangano nel circuito dell’assistenzialismo.
Qual è stato il caso più memorabile, il più grande successo degli “avvocati di strada”?
Per noi rimane importantissimo il nostro primo caso, quella che tra noi chiamiamo la “pratica numero zero” di Avvocato di strada, che riguardava proprio il diritto alla residenza. Era il 2001 e il nostro progetto stava muovendo i primi passi: una persona che viveva in dormitorio e aveva bisogno della residenza anagrafica per poter lavorare aveva chiesto numerose volte la residenza al Comune di Bologna. Il Comune sapeva dove viveva quella persona e non aveva bisogno di fare accertamenti, eppure negava la residenza. Intentammo un ricorso d’urgenza e il giudice ci diede ragione. Fu un grande successo per il nostro utente, per tutte le persone che da quel giorno potevano chiedere più facilmente la residenza, e per noi: era un segnale che quello che ci proponevamo di fare poteva essere utile.