Recentemente, facendo degli studi in fitoterapia, mi è capitato di seguire una lezione sull’etnobotanica; anche se inizialmente il nome non mi diceva quasi niente, è stata invece una lezione alquanto stimolante, tanto che sono qui a scrivere di questo argomento.
Ho scoperto cosi che l’etnobotanica è una scienza interdisciplinare e transdisciplinare (al confine tra antropologia culturale e botanica) che si occupa dell’impiego e della percezione delle specie vegetali all’interno di una o più società.
Essa quindi studia l’uso tradizionale delle piante tenendo conto delle caratteristiche socio-culturali, economiche e storiche di una popolazione e ha come obiettivo finale quello di documentare la storia, l’utilizzo e studiare terapie mediche alternative. Personalmente mi ha sempre intrigato l’uso “popolare” delle piante, anche se spesso mi sono sentita indecisa se considerarle una valida alternativa terapeutica o meno, anche oggi, dove la scienza ci mette in guardia su tutto e ci vengono proposti preparati sofisticati ed elaborati secondo le più rigide normative di qualità, sicurezza e fabbricazione.
L’etnobotanica cerca di andare oltre tutto ciò: si pone l’ambizione di osservare l’antropologia culturale di un gruppo di persone, di analizzare perché alcune piante sono state usate in alcuni ambiti terapeutici, trovando o no riscontro scientifico, convergenze o divergenze con l’uso delle medesime piante in altre popolazioni o epoche.
Ma la cosa che più di tutto mi ha colpito non è la scoperta di una nuova disciplina scientifica legata alla fitoterapia, quanto la scoperta di una disciplina che funge da punto di incontro tra la modernità e la tradizione, sotto lo stesso denominatore comune: le piante. E’ una scienza che permette di scoprire il “nuovo” ricercando nel “passato”… come quando uno cerca tra i gioielli della nonna e trova un particolare di un’altra epoca di cui vantarsi e da portare con orgoglio.
Risucchiata nel vortice di questo nuovo entusiasmo ho iniziato così la mia ricerca tra i “gioielli di mia nonna”.. e come sempre, gli impulsi più potenti ci indirizzano verso ciò che ci appartiene, ciò che è dentro di noi e che vuole essere esplorato. Ho iniziato dunque a fare delle ricerche bibliografiche cercando studi di etnobotanica sul mio paese d’origine, l’Albania, e ho sorprendentemente trovato decine di studi recenti sull’argomento. La maggior parte sono stati condotti grazie alla collaborazione tra l’Università di Tirana (Albania) e quella di Pollenzo (Italia), e spesso le popolazioni soggetto di questi studi si trovano in aree isolate montuose dell’Albania, dove il vento della cultura occidentale fatica ancora a penetrare, cosi come hanno faticato gli ottomani durante l’occupazione ottomana (xv-xx secolo) e il regime comunista durante la dittatura di Enver Hoxha (1940-1991).
L’etnobotanica quindi è stata un trampolino che mi ha avvicinato a una parte di me: grazie a questi studi sono venuta a conoscenza delle migliaia di piante che l’Albania ospita nel suo territorio, la biodiversità, gli usi e le tradizioni legate a loro. Leggendo gli articoli mi sono immedesimata nelle varie località descritte in maniera analitica e scientifica, e la familiarità con la cultura mi ha fatto immergere in un viaggio itinerante tra diverse località… iniziando dalle maestose montagne del Nord, a Theth, dove nel mese di luglio si iniziano a raccogliere prugne per farne una grappa unica nei balcani, il raki, a base di varie specie di prugne (Prunus domestica L. e Prunus cerasifera).
Qui gli abitanti preparano anche il raki a base di Gentiana lutea, pianta che viene usata per le malattie cardiovascolari. L’uso è alquanto interessante e ben diverso dall’impiego digestivo che se ne fa in Occidente. Probabilmente l’effetto cardiovascolare è legato più all’azione dell’alcool prodotto dal processo di fermentazione stessa piuttosto che dalla pianta di Gentiana in sè. Tra l’altro Gentiana è una pianta scoperta proprio da un Re di queste parti, il Re Gentian, che le diede il proprio nome nel 2° secolo a.
C. adoperandola come pianta medicamentosa contro la malaria.
Un’altra ricerca parla delle tradizioni botaniche nel sud est, nella zona di Mokra al confine con la Macedonia, dove il 13 marzo si raccolgono fiori e rametti di cornolo, mele, noce e bosso per posizionarli sotto il cuscino la notte dell’eclissi lunare, che corrisponderebbe alla Festa della Primavera Albanese. Il giorno seguente si festeggia il Giorno della Primavera (Dita e veres) e la tradizione vuole che i fiori raccolti si usino per fare un bagno caldo, purificante dal lungo inverno stagnante. Gli abitanti di questa zona usano un altro tipo di raki a base di mele (Malus domestica), che bevuto caldo con un po’ di zucchero si trasforma in sciroppo lenitivo per la tosse (punch). Durante l’inverno non manca poi il tè di montagna Galinica o Caj Mali (Sideritis spp), impiegato in caso di raffreddore, mal di gola o influenza. Caj mali è un te aromatico che cresce fino ai 1000 m, usato un po’ ovunque in Albania; il suo consumo risale ai tempi degli antichi.
Altri studi continuano a parlarmi di tradizioni culinarie, fitoterapiche che gli abitanti di questi territori conservano, inconsapevoli della loro ricchezza. E’ fondamentale dunque che scienze come l’etnobotanica esistano e continuino le loro ricerche, specchio storico di tradizioni che cambiano in fretta. Mi auguro di poter scrivere ancora di questo argomento dopo uno studio approfondito fatto in Albania.
/Klodiana Dosti