[ Dioràma Storico Albanese (17°) ] La shoah dimenticata dei figli di Skanderbeg ovvero le atrocità dimenticate del regime nazi-mao-stalinista di Enver Hoxha Il “Pol Pot” d’Albania
● ●● O terra d’Albania, che Patria fosti a quel prode Iskànder de’ saggi esempio, e de’ giovani scola, ed all’Eroe di nome egual, di cui le invitte prove, sgomentàr tante volte i tuoi nemici! ●●● (Dal “Pellegrinaggio del giovane Aroldo” di Lord BYRON)
Così cantava il grande poeta inglese George Byron (1788-1824), dopo avventurosi viaggi in Oriente, visitando quel lembo indomito e fiero di terra adriatica che per alcuni decenni fu il solo baluardo efficace contro l’irrompere ostinato e continuo delle invasioni barbariche dell’Impero di Ertoghrùl in Europa: Impero umiliato a Lepanto nel 1571 dalle Nazioni cristiane fino alla pace di Carlovitz del 1699, dopo la vittoria riportata a Zenta dal principe Eugenio di Savoia (1663-1736), e fino al suo totale smembramento del 1878 operato da Inglesi, Russi ed Austriaci nel famoso congresso di Berlino.
Questa breve premessa di sapore storico-letterario funge da viatico per spronarci a spezzare una lancia in favore della sfortunata e martoriata Patria di Giorgio Skanderbeg e……. degli Antenati di noi Arbëreshë. Già, l’Albania! Non vi è, oggi, chi non consideri lo stato di estrema drammatica precarietà socio-economica in cui langue ancora! Chi sono, inoltre, i responsabili del dramma di un intero popolo, popolo che è alla ricerca spasmodica di una generale catarsi nazionale? Vanno ricercati, senz’altro, in quella classe dirigente che gestì il potere dal novembre 1944 al marzo 1991.
Ma procediamo per gradi. La Shqipërìa (letteralmente significa “terra delle aquile”), affrancatasi dal giogo turco nel 1912 dopo quasi cinque secoli di sudditanza, ha conosciuto in seguito solo una brevissima parentesi di libertà effettiva. Nell’aprile 1939, difatti, l’Italia sabaudo-fascista occupa (senza colpo ferire) il piccolo Stato balcanico che si era dato un assetto monarchico (undici anni prima) con Ahmet Muhtàr bey Zogolli. Ufficialmente la Corona albanese, passata da Zog I a Vittorio Emanuele III, condivise il destino italiano fino al settembre 1943, anno in cui ci fu il drammatico disimpegno dell’Italia all’interno delle forze dell’Asse. È nostra intenzione, al fine di poter capire l’attuale situazione in cui versa la Repubblica shqipëtare, partire da quel terribile anno! In buona sostanza desideriamo recare un modesto contributo alla divulgazione, presso i lettori di “ALBANIA NEWS”, di alcuni aspetti storico-politici che hanno caratterizzato il lasso di tempo che va dal 1943 al 1991.
Iniziando (dopo il tragico 8 settembre 1943) la guerra civile nell’Albania del Sud, dove si contendevano le due forze della Resistenza Antifascista – il Partito Comunista camuffato in “Movimento di Liberazione Nazionale” e “Balli Kombëtàr” (quest’ultimo era il raggruppamento più importante dei Democratici Albanesi in armi) – i seguaci di Enver Hoxha (capo indiscusso dello schieramento partigiano comunista), già succubi degli agenti di Josip Broz (alias “Maresciallo Tito”), scelsero l’arma del terrore per la presa del potere. La scoperta, sempre nel 1943, della Fossa di Shipëska (vicino Korçë) con centinaia di cadaveri, molti dei quali scorticati vivi, con i piedi montati da ferri di cavallo, con organi genitali tagliati, fu il loro primo “capolavoro” raccapricciante contro avversari indomabili! La prima “Katin” albanese non fu l’ultima.
Qualche tempo dopo, Mehmèt Shèhu (futuro Primo Ministro dell’Albania comunista, dal 1954 al 1981), con gli ostaggi del movimento “Balli Kombëtàr”, fece scavare un’altra fossa a Lùshnjë, dove furono sepolte vive altre centinaia di persone catturate (poveri contadini, per la maggior parte)! E quando i conventi dei “Bektàshi” (una setta di musulmani, il cui centro mondiale si trova in Albania) si schierarono con le forze nazionaliste, i comunisti li attaccarono, li distrussero e fecero a pezzi i monaci superiori resistenti come Baba Zylfo Turani (1883-1943). Ma il terrore più infame l’esercitarono dopo la presa del potere avvenuta il 29 novembre 1944. Le migliaia di antifascisti non comunisti sparsi raggiunsero gli altri eroi della lotta contro il neonato Regime bolscevìco di Hoxha. Le carceri ed i campi di concentramento rigurgitarono di condannati.
Tutte le conclamate opere del Regime furono frutto del lavoro forzato di questi schiavi – uomini e donne – che in buona parte perirono affamati ed esausti.
Un professore shqipëtàr rifugiatosi in Occidente, parlando dell’ondata di terrore in Albania, così descriveva un tribunale comunista contro l’Arcivescovo di Durrës, Mons. Vinçènc Prëndùshi (1885-1949), poeta e scrittore di fama: «Il procuratore legge la sentenza. Accusa: nemico del popolo, collaboratore dell’occupante fascista, reazionario agente del Vaticano. Condanna: vent’anni di lavori forzati. Era la sentenza più mite in quelle circostanze del 1947.
Dalla bocca di Mons. Prëndùshi ho appreso che l’hanno torturato (legato mani e piedi) appendendolo orizzontalmente su una asse e lasciandolo così per giorni e giorni come le pecore dal macellaio! Malato di cuore ed asmatico lo costringevano, schernendolo, a salire per una ripida collina portando sulle spalle delle pesanti travi da costruzione. Era la sua Croce! Spirò dopo sofferenze inaudite nel 1949 cercando (a simiglianza del grande Wolfgang Goethe)……. la luce, perché gli occhi dell’uomo cercano morendo il sole … ».
A proposito della situazione religiosa in Albania si può affermare con tutta tranquillità che dalla conquista dell’indipendenza dalla Sublime Porta (28 novembre 1912) alla salita al potere dei comunisti (29 novembre 1944), i cattolici albanesi ed i loro connazionali ortodossi e musulmani godettero di una relativa pace religiosa nella loro condizione di credenti; in fondo, nessuno mai veniva perseguito perché cattolico e credente in Dio; né alcuno pensava sul serio a sradicare il Cristianesimo e a disfarsi della Chiesa. Ma con l’avvento del Regime stalinista di Enver Hòxha (1908-1985) e Mehmèt Shèhu (1913-1981) la situazione precipitò d’un tratto nel baratro più tetro. Fu messa in atto, con furia implacabile, una persecuzione totale, organizzata, spregiudicata e apertamente ostile al Cattolicesimo. E tutto ciò in un silenzio di tomba, senza che nessuno potesse parlare o protestare: quelli che ebbero il coraggio di aprire bocca finirono ai lavori forzati! Con freddo calcolo e con meticolosa esecuzione dei piani prestabiliti furono realizzati la totale eliminazione della gerarchia ecclesiastica, la soppressione radicale delle istituzioni religiose e culturali ed il soffocamento della vita cristiana.
Il 2 dicembre 1945 il giornale “Bashkìmi” dava il primo segnale della tempesta riportando dalle sovietiche “Iszvestja” del 30 novembre le minacce di Ilija Ehrenburg (1891-1967) che poco prima aveva visitato l’Albania: «I reazionari hanno imbastito una campagna di boicottaggio delle elezioni, con a capo i grandi proprietari terrieri, il clero cattolico e molti gesuiti». Qualche mese dopo, sempre nel “Bashkìmi” del 25 gennaio 1946, faceva eco al famoso intellettuale sovietico uno dei capi comunisti albanesi più eminenti in una intervista concessa ad alcuni giornalisti: «Le personalità più alte dell’episcopato cattolico in Albania ancora oggi hanno l’ardire di giustificare la loro collaborazione con il nemico, dicendo che avrebbero preso parte alla ricostruzione nazionale, se non fossero disorientate da una serie di ideologie che sono in pieno contrasto con la loro coscienza e con i loro principi morali». La fine della Chiesa Cattolica era stata decretata e la persecuzione si scatenò con furia infernale mediante i tipici processi “popolari”. La parola d’ordine fu di abbattere la Chiesa, il più grande ostacolo all’espansionismo ed alla vittoria del comunismo. I primi a cadere furono i preti secolari; seguirono i gesuiti e subito dopo venne la volta dei francescani. Cosicché dei circa 120 sacerdoti autoctoni, ben 70 furono soppressi fra indicibili torture e mortificazioni.
Poco dopo vennero anche arrestati due prelati: Mons. Frano Gjini (1886-1948), abate mitrato dei Mirditi e Mons. Gjergj Volàj, ordinario di Nënshati. Entrambi, dopo essere stati torturati barbaramente, vennero fucilati assieme ad undici laici cattolici.
L’ultimo presule rimasto libero, l’Arcivescovo metropolita di Shkodër, Mons. Gaspër Thaçi, morì in sede per la mancanza di cure mediche a causa della segregazione impostagli dai comunisti e di dolore per l’impossibilità di esercitare il ministero sacerdotale. Pertanto, alla fine del 1948, si poteva dire praticamente raggiunto lo scopo del Governo di Enver Hoxha (il “Pol Pot” d’Albania!) di eliminare la gerarchia cattolica. Il 1951 fu ancora più tempestoso per il rimanente esiguo clero cattolico: la costituzione della Chiesa Albanese separata da Roma. Già fin dal 26 novembre 1949 il Governo aveva promulgato il famigerato Decreto-legge n. 743 sulle comunità ecclesiastiche, che creava strutture carcerarie da loro denominate eufemisticamente “di rieducazione”. Campi forzati sorsero, così, nel circondario di Shkodër, a Fishta (Zadrimë), nell’Ishùlli i Lezhës, a Torovica (Mal i Jushit) e Haimël. Questi campi videro la luce quasi tutti durante il 1974 e furono popolati da circa 4.600 giovani. Secondo un rapporto di “Amnesty International” in Albania esistettero, sino al marzo 1991, ben trentuno “lager”: un primato non superato da altri Paesi dell’Europa Orientale!
Un’ultima osservazione. Quali erano le colpe meritevoli di “isolamento e rieducazione”? Eccole:
– organizzare una manifestazione culturale;
– lamentarsi della durata del lavoro e della scarsità di cibo;
– criticare gli uomini del Regime o parlare di loro in tono men che serio (raccontare barzellette);
– ascoltare le radio straniere;
– imitare, nell’abbigliamento, i propri coetanei dell’Europa Occidentale!