Ci troviamo nel ristorante “Antico Arco”, in una delle tante bellissime zone di Roma, assieme a Fundim Gjepali, 28 anni, nato a Shijak, ora chef esecutivo.
Come ha avuto inizio la tua storia in Italia?“Direi come quella di tutti coloro che emigrano per motivi economici. Ho iniziato, nonostante fossi molto giovane, come lavapiatti, con l’amore per la cucina e quella poca esperienza, che avevo già acquisito in Albania fra il caseificio e la macelleria della mia famiglia, mi ha aiutato a diventare aiuto cuoco per poi lavorare in un agriturismo. L’attività mi ha condotto a Rimini per una stagione per poi farmi ritornare a Roma. Ho anche avuto l’opportunità di fare vari stage in Francia e in Spagna.
Ci sono voluti molto lavoro, dedizione, curiosità, passione e sopratutto molti sacrifici, però alla fine ho potuto legare fra loro tutti gli elementi e con un po’ di fortuna sono riuscito a trovare il mio posto.”Hai trovato qualche somiglianza tra le due cucine che hai vissuto, ossia quella albanese e quella italiana?” In realtà molte poche, o quasi per niente. La cucina italiana è molto variegata in confronto alla nostra.”Hai mai fatto un piatto che traesse spunto da entrambe?“Si, ed è qualcosa che è apprezzato dai clienti, si chiama Fagottino: è fatto con mozzarella di bufala, bottarga di tonno e pomodori confit.”
Pensi che sia possibile avanzare un progetto di cucina albanese nel mercato italiano?“Credo sia molto difficile, non la vedo come una cosa fattibile almeno per ora.
Prima affinché questo si possa fare, bisognerebbe internazionalizzare la cucina albanese.”Sembra quasi il discorso sulla globalizzazione, ma lo chiedo lo stesso: rendere la cucina albanese più standardizzata (proponibile a vari e differenti ambiti) non le farebbe perdere la sua specificità?” Io nutro dei bellissimi ricordi di quando si facevano a casa delle grandi cene con molte persone, eravamo tutti attorno ad un tavolo pieno di cibi cucinati con il cuore. Era un processo che partiva col prendere/scegliere gli ingredienti, in una famiglia contadina questo era un rituale immancabile, sino a metterli assieme e mangiarli tutti insieme.
Tirar fuori dal cassetto e proporre le ricette del mio paese sarebbe una cosa molto bella, ma non credo che ciò si possa fare qua, non ancora almeno.”È stato difficile, pur non essendo italiano, diventare chef in Italia? Insomma, se la cucina in genere è manifestazione e conferma di ogni cultura, quella italiana viene spesso innalzata ad arte per eccellenza, diventando così un più forte elemento identitario per la cultura stessa. Come convive questa “identità culinaria” con il fatto che l’artista in questo caso non è italiano?” È stato molto difficile. Un po’ per il motivo che hai menzionato, un po’ perché comunque vai a misurarti con esperti di una cucina che sono diventati tali anche perché sono cresciuti con essa.
Io ho avuto l’opportunità di conoscere Patrizia Mattei, la proprietaria di questo locale, la quale pur avendo condotto una vita lontano da questo tipo di attività ad un certo punto ha deciso di dedicarsi del tutto alla cucina.
Il suo progetto mostrava un’apertura mentale e una modernità particolare, secondo me, in quanto mirava a mettere assieme un’esperienza di cuochi provenienti da diverse parti del mondo, legati assieme dalla cucina italiana.
Noi siamo in dieci, provenienti dalla Svezia, Giappone, Ecuador, Perù, Bangladesh e Albania, lavoriamo in gruppo ed è anche questo uno dei nostri punti forti: comunichiamo in italiano e cuciniamo piatti tradizionali italiani cd. “revisited”.
I clienti sanno quello che trovano da noi: cibi privi di prodotti chimici, di ottima qualità e sopratutto prodotti artigianali che non si trovano facilmente; ma oltre a tutto questo, secondo me non si rendono ancora del tutto conto di quello che succede, di quanto sia innovativo questo percorso.È molto naturale anche il comunicare: ogni volta che mi viene in mente qualche idea, compilo un progetto e lo propongo agli altri. A prescindere dall’essere accettato o meno, anche soltanto fare la ricerca su tutto il materiale necessario, sui costi dei prodotti, sulle preferenze dei clienti, eventuali proposte di nuovi piatti, la gestione completa insomma, mi piace moltissimo.
In cucina non si tratta mai solo di cucinare ma anche di coordinare le risorse nel modo migliore offrendo la qualità più alta. É una logica che funziona dappertutto non solo in quelle delle nostre case.”Quindi ci potrebbe essere anche qualche altro progetto a riguardo?” Sì, in effetti, sì. Sempre sulla scia di quello che ti dicevo riguardo il cucinare ed il mangiare nel mio paese, mi ricordo benissimo mia nonna quando cucinava, come si muoveva e come si gestiva. Molti di quei ricordi mi sono d’aiuto tutt’oggi.Vorrei aprire un’attività lì, però qualcosa che sia totalmente diversa dall’attuale prassi della gestione alberghiera albanese. Vorrei valorizzare i prodotti contadini di tutta le zone, utilizzando l’esperienza raccolta in occidente. Avendo ricevuto delle terre, ho già iniziato a piantare dei semi di spezie e verdure provenienti da diversi paesi e sarebbe interessante inserire anche quelle.”Il terreno favorisce lo sviluppo di queste colture?” Sopratutto quello del centro dell’Albania, sì.”Hai un’idea di quel che farai in futuro? Tornerai in Albania o resterai in Italia?” Credo che l’una non escluda l’altra possibilità. Ormai sono tutte e due parte della mia vita e della mia persona, sconnettermi totalmente da una sarebbe come ripetere di nuovo il processo dell’emigrazione, cosa che non vorrei rivivere.
In più ho anche una famiglia. Non so se mia figlia crescerà sempre qua o in Albania, non dico che non mi piacerebbe se vivesse lì, però è una scelta molto difficile.”Hai dei piatti preferiti?” Assolutamente no, o meglio sono tutti preferiti i piatti che mangio (ride). Dipende molto dal momento, la scelta del piatto.”Allora se dovessi consigliarmi in questa stagione, in questo momento, in questo luogo un piatto italiano e uno albanese, quali sceglieresti?”… il primo sarebbe una zuppa di piselli freschi con calamari arrostiti e salsa di pomodori secchi, un piatto semplice e rinfrescante.
Quello albanese invece…in questo caso rimango un tradizionalista: kukurec* oppure la tradizionale fergesa**, di cui possiamo andare fieri.”A mio avviso non siamo ciò che mangiamo, ma spesso quel che mangiamo è frutto del nostro relazionarci con ciò che la terra ci offre come cibo. In questo continuo dialogo, che parte dal momento in cui l’uomo capisce che il cibo si può mangiare anche cotto, si sono sviluppati modi incredibilmente variegati di assaporare ciò che è commestibile. Certo, se non diventa una cultura vera e propria, a seconda di cosa si voglia chiamare cultura o meno, ciò che si mangia ed il modo di prepararlo è comunque una manifestazione di come l’uomo gusta il cibo. Naturalmente quello che è un piacere per il palato non è necessariamente cultura, può essere però valutato come uno tra i tanti elementi rappresentativi dell’uomo.È vero che così come per la lingua, anche il palato viene addestrato ed acculturato dal momento in cui nasciamo, facendoci crescere all’interno della condivisa mentalità “linguistica”, ma proprio come per la lingua abbiamo sempre più esempi di quanto anche chi parla lingue diverse dalle nostre possa impararle per poi comunicare con noi, facendoci magari capire anche punti di vista che non avevamo mai pensato potessero esistere, così anche nel mangiare si può notare come e quanto l’uomo abbia sete, o forse è più appropriato dire, fame di provare lingue di palati diversi dal suo, assaporando associazioni di sapori che non immaginava potessero esistere.
Quindi, la questione secondo me non è quanto possa essere bravo un siciliano a cucinare un piatto cinese o un arabo a fare la pizza napoletana, perché la passione e l’amore per ciò che si fa assieme all’esperienza sono ingredienti universali, che crescono e danno i loro frutti buonissimi in ogni terra. Credo che ci si debba chiedere piuttosto cosa, nel mondo di oggi, e forse di più in quello di domani, voglia dire palato italiano, palato albanese, palato egiziano…Entro il 30 maggio chi si trova a Roma può visitare la mostra fotografica “Fornelli d’Italia” dedicata ai chef immigrati che lavorano nelle cucine dei grandi ristoranti italiani.
Casa del Cinema di Villa BorgheseLargo Marcello Mastroianni n° 1.
Dalle 15.oo alle 19.oo, ingresso gratuito.Note:*interiora di agnello cucinate alla piastra, molto speziate**può essere fatta in diversi modi. É una specialità di Tirana, fatta prevalentemente di peperoni fritti