Quando le generazioni nuove raccontano ciò che vivono prendendo a tutti gli effetti le distanze da quelle vecchie con un totale sopravvento, significa che qualcosa della nostra storia sta cambiando. Le differenze partono dalla parlata innovativa, nuovi punti di vista, e proprio mentre osservano e criticano chi li ha preceduti, immischiando il nuovo e il vecchio modo di vivere mettono al nudo il cambiamento.
La diversità che racconta Gabriele – Gëzim Kaci nel libro “Memories of a ruined summer” non è solo generazionale ma anche culturalo – geografica, causato da una delle tante storie di migrazione del nostro tempo. Lui è un ragazzo di 18 anni, venuto in Italia all’età dell’asilo, e obbligato a far ritorno nel paese d’origine nel periodo estivo con tutta la famiglia. Un Albania che non rivela altro che un abisso di diversità culturale con quella italiana.
La questione dell’integrazione degli immigrati in Italia, delle seconde generazioni e dell’inclusione sociale non ha lasciato vuoti d’analisi in tutti questi anni. Ma di quei piccoli albanesi oramai italiani adulti chi si è mai occupato? Pare che la paura di toccare la santità della nostra terra d’origine, abbia lasciato completamente soli gli adolescenti alieni che si ritrovano a dir loro “costretti a subire obblighi fuori natura” dalla cultura d’origine una volta tornati nella vecchia famiglia.
E ecco che il libro, pubblicato a febbraio di quest’anno, si ritrova ad essere l’unica rappresentanza, con una irripetibile vena sarcastica, a mettere sotto lo spietato occhio di riflessione di un giovane occidentale individualista, la cultura albanese straordinariamente legata a valori con non poco folklore cavalleresco.
Gabriele è spregiudicatamente sincero, persino verso l’unico scrittore albanese conosciuto nel mondo e fierezza degli albanesi nel mondo, Kadaré, che non esita a chiamarlo un francese “con la puzza sotto il naso”. Il suo linguaggio appartiene all’era internetica, tale da poterla leggere tutta di un fiato per l’essenza riassuntiva e l’attrazione ironica continuativa. Instancabile nei paragrafi che singolarmente fanno nascere e finire una storia a se stante, in sole poche righe. Il tutto arricchito di accenni storici, con protagonisti: lo stato, la politica, la religione, il folklore, la cultura, le credenze e detti popolari, i diritti delle donne. Le eloquenti allegorie e metafore offrono con chiarezza l’immagine del concetto difficilmente afferrabile.
La scrittura dallo spirito dei ragazzi di Spinoza, si immischia con un decadentismo culturale alquanto irrispettoso al primo cospetto, che non risparmia nessuno e non la manda a dire. Descrive le situazioni con una pungente ironia, mista di lamentale e riflessioni adolescenziali da bravo solitario moderno qual è, tanto da recare grave disturbo alla società clanistica e comunitaria albanese. La lingua è sciolta e mista di parole ad effetto, di climax e di sarcasmi. L’ironia è tale da creare suspence nelle conclusioni e irritazione nelle affermazione sospettose e rivelate solo nel loro significato contrario. Non concede nemmeno il dubbio del giudizio al lettore.
L’immigrato della seconda generazione non ce l’ha con il paese di per sé, ma con il gruppo di persone in carne e ossa, che rifiutano qualsiasi modo di vivere alternativo al loro, che non hanno nessuna apertura mentale e che soprattutto non amano le critiche. Tutto ciò per il giovane “italiano” indefinito si trasforma in uno scontro-confronto di cui l’interlocutore è lui stesso, dato che pochi sono capaci di rispondere alle sue perplessità. Per questi motivi il libro è maggiormente adatto alla lettura di quelle persone che come minimo almeno una volta nella vita il sabato sera abbiano aspettato l’alba per fare collazione.
Da degno puntiglioso, Gabriele – Gëzim chiama l’Italia Maccheronia – non ama parlare in italiano quando è in Albania, che la chiama invece “uno sputo di Dio” di fronte alla megalomane immagine che gli albanese hanno del loro paradiso rispetto alle altre grandi nazioni.
Per continuare afferma che esso è “Un posto dove la metà della popolazione ancora viaggiava sugli asinelli e in cui in concetto di “libertà di espressione” era totalmente sconosciuto”. Dove “Era ovvio che la stampa avesse il potere sulle masse, e il fatto che a sua volta fosse controllata da politici senza scrupoli che non volevano altro che ridurre il nostro quoziente intellettivo a quello di un sedano bollito non facilitare le cose.” E infine: “L’opinione della ragazza aveva avuto l’importanza che ha la benzina per il funzionamento di una macchina a idrogeno”.
Un posto pieno di riti e costumi, di canzoni ripetitive e con poca innovazione intellettuale, dei matrimoni poco parsimoniosi, dei Pazar arrangiati alla ottomana, dei caffè pomeridiani lunghi e petegolosi, degli ospiti che valgono più dei propri familiari, degli amici italo- albanesi che danno sollievo perché vivono la stessa disgrazia di costrizioni in un paese che non riconoscono più come proprio ma che i genitori stentano a capirlo.
Ma ciò che conta è il pensiero di Gabriele – Gëzim, un adolescente che anche in Italia lotta per i diritti di una cittadinanza effettiva e che in Albania si ritrova a non riconoscere quella cittadinanza naturale.
Lui la esprime così: ”Durante i miei dodici anni di permanenza in Italia, mi ero reso conto che ormai l’esperto della famiglia, in quasi ogni cambiamento, ero io. Qualsiasi cosa accadesse all’interno del nucleo familiare, io ero parte integrante e i miei mi chiedevano spesso aiuto data la mia orami approvata comprensione della cultura italica. Quando d’estate tornavamo nel paese delle aquile, io diventavo un ignorante sottomesso, ed erano i miei a prendere lo scettro del comando.”
Ci sono – seppure pochi – i momenti di gloria per il suo paese d’origine mai conosciuto: “… in seguito la concezione che avevo di mio paese natale cambiò radicalmente quando vidi la chiazza d’acqua sulla quale il mio indegna deterano di sarebbe andato a posare”- descrivendo Saranda.
“Ma devo dire che mi mancheranno le idiozie di questo posto, è difficile fare esperienze del genere dalle mie parti”.
A seguire un breve intervista a Gabriele –Gëzim Kaci.
Gabriele Kaci, dopo aver finito li studi superiori grafici, ha fatto richiesta per una una borsa di studio ad una scuola di architettura e design in Danimarca, deciso di voler fare design o architettura in Italia o altrove. Ha finito di scrivere il libro a dicembre, ed è stato pubblicato a febbraio, oggi nelle librerie di Lucca e acquistabile on line. Alla domanda che cosa lo ha spinto a scrivere il libro, risponde: “leggevo sempre libri di autori albanesi che scrivevano in Italiano. Molto bravi devo dire, ma il punto di vista e la storia mi sembrava sempre lo stesso, l’emigrazione dall’Albania all’estero. Ma c’è anche il punto di vista di chi vive qui e torna al suo paese natale, di ragazzi che vivono la mia situazione ce ne sono tantissimi, e mi sembrava bello raccontare come ci si sente, nonostante io esprima solamente il mio punto di vista, questo è ovvio. E poi, chi ha letto le mie prime descrizioni si è molto divertito.”
Come definiresti il tuo genere?
Non saprei, satirico demenziale forse. Il demenziale c’è sempre, finché ci sono io nel mezzo. Ho solo cercato di riportare la mia realtà in forma ironica. Sugli autori invece mi piace un sacco il modo di scrivere di Enrico Brizzi, per quanto riguarda la letteratura Italiana. Jack Frusciante è Uscito dal Gruppo è uno dei miei libri preferiti.
Pensi che gli albanese non amino le critiche?
Non sono in pochi ad avermi detto che molti mi aspetteranno con un kalashnikov in mano (cosa che non manca di un pizzico di pregiudizio. Altri invece dopo averlo letto mi hanno detto che gli è piaciuto molto. Questo, è ovvio, dipende da persona a persona. Io ho solamente riportato quello che ho visto, e spero che invece di un accanimento, ci sarà un tentativo di comprensione. Ecco, vorrei che prendessero l’ironia per quella che è. Se uno tenta di essere ironico, di riportare le cose sotto un punto di vista quasi comico, è ovvio che userà un certo linguaggio, e un certo tipo di parole. Vorrei quindi che potessero comprendere che non sono critiche dovute a un odio insensato, ma solamente ad una realtà che in fin dei conti è veramente così. Spero possano riderci su.
Allora c’è qualcosa che condividi di quella realtà, qualcosa che salveresti?
Cavolo, si! Io salverei tutto ciò che riguarda l’aspetto delle tradizioni.
Nonostante io mi faccia beffa di quasi tutto, è ovvio che le tradizioni di un posto vadano mantenute sempre e comunque. A meno che queste, ovviamente, non siano dannose per la società stessa.
Invece sull’integrazione della seconda generazione che ne pensi?
E inutile girarci in torno, l’integrazione, spesso e volentieri dipende dalla persona stessa. Secondo me al giorno d’oggi, soprattutto gli adolescenti, o i facenti parte della seconda generazione, sono integrati più che perfettamente. Quei pochi che non lo sono, non lo sono essenzialmente per causa loro. Nella mia scuola di stranieri, albanesi compresi, ce ne erano molti. Moltissimi ben integrati, altri invece che preferivano starsene tra di loro. Quindi suppongo che quella fosse una scelta personale.
Cosa consiglierei di fare? È una bella domanda, e certamente persone più sveglie e illustri di me hanno provato a rispondere, dando certamente idee migliori, ma c’è bisogno di un’apertura mentale del popolo.
Tutti si accaniscono contro la politica fatiscente, ma la politica è fatta dalle persone, è inutile dirlo.
Fino a che il popolo non aprirà gli occhi, i politici continueranno a fare da cani guida.
Quindi c’è qualcosa che ha l’Albania e l’Italia non ha? O viceversa che ricorderesti?
L’Albania ha cose che l’Italia non ha, certo, ad esempio a me piace il rispetto che si ha verso i più anziani, che in Italia è ormai andato a farsi benedire.
E il mare in Albania mi piace un sacco.
Ma L’Italia invece sotto un punto di vista sociale è decisamente più avanti.
Nonostante L’Albania stia diventando una caricatura dell’Italia.
E non è bello essere la caricatura di una caricatura.